Omelie del tempo ordinario 2  

 

a cura di don Carlo Salvador

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22.05.05  FESTA DELL'APPARTENENZA scarica il file in formato Word
29.05.05  CORPUS DOMINI scarica il file in formato Word
05/06/05  ORDINARIO 10 A 2005  scarica il file in formato Word
12/06/05  ORDINARIO 11 A 2005 scarica il file in formato Word
19/06/05  ORDINARIO 12 A 2005 scarica il file in formato Word
26/06/05  ORDINARIO 13 A 2005 scarica il file in formato Word
03/07/05  ORDINARIO 14 A 2005 scarica il file in formato Word
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07/08/05  ORDINARIO 19 A 2005 scarica il file in formato Word
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15/08/05        ASSUNTA       2005 scarica il file in formato Word
21/08/05  ORDINARIO 21 A 2005 scarica il file in formato Word
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16/10/05  ORDINARIO 29 A 2005 scarica il file in formato Word
30/10/05  ORDINARIO 31 A 2005 scarica il file in formato Word
TUTTI    I    SANTI      2005 scarica il file in formato Word
06/11/05  ORDINARIO 32 A 2005 scarica il file in formato Word
13/11/05  ORDINARIO 33 A 2005 scarica il file in formato Word
20/11/05  GESU' RE DELL'UNIVERSO A 2005 scarica il file in formato Word

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SOLENNITA’ DEL CORPO E SANGUE DI CRISTO

* Omelia tenuta dal diacono Elio Tardivo *

 

La solennità del Corpo e Sangue di Cristo è una festa che nasce dalla devozione popolare per l’eucaristia e come tante devozioni popolari, ha avuto il limite di valorizzare un solo aspetto del sacramento: la presenza  reale di Gesù nel pane consacrato. Il papa Urbano IV l’ha introdotta nel 1264 come risposta a dottrine  ereticali che negavano la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Ma la riforma del Concilio Vaticano II ha dato alla festa  un significato più completo, dotando la liturgia di nuovi testi e nuove  preghiere e aggiungendo al titolo la parola Sangue . Prima si chiamava: Corpus Domini (Corpo del Signore). Oggi si chiama solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Il riferimento al sangue sposta la nostra attenzione sul mistero pasquale considerato nella sua interezza come  passione, morte e risurrezione di Gesù.

Le letture bibliche e le preghiere della liturgia odierna ci educano a comprendere l’Eucaristia come mistero della Pasqua. I Padri della Chiesa, consideravano la Pasqua festa della Eucaristia e l’Eucaristia celebrazione della passione, della morte e della risurrezione di Gesù.

Il discorso di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Giovanni, ci suggerisce alcune riflessioni.

1. Di fronte alle folle che lo ascoltavano, Gesù  afferma: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo». Egli è il dono del Padre fatto agli uomini. E’ l’inviato a portare la salvezza e la vita a noi che siamo destinati alla morte. Gesù usa la metafora del cibo, perché il cibo serve a sviluppare e a far crescere la vita e per questo deve essere mangiato. Dunque Gesù è pane da mangiare destinato a coloro che hanno ricevuto  dal battesimo la vita divina. Durante il digiuno nel deserto, rispondendo al diavolo che lo sollecitava a trasformare le pietre in pane per sfamarsi, aveva detto: “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” Mt 4,4 cfr. Deut 8,3. La Parola di Dio è nutrimento. Egli in persona è parola di Dio che si è fatta carne: “e il Verbo si fece carne e dimorò fra noi” cfr. Gv 1,14. Questo annuncio, che Giovanni fa nel prologo trova riscontro nel discorso odierno: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La metafora del cibo indica dunque una stretta relazione. Gesù ha scelto la relazione e la comunione totale con l’uomo.  «Carne» e «sangue» significano la sua condizione umana che lo porta a condividere il dolore e la morte, ma che diventa sorgente di vita per il mondo, a patto che venga mangiata, cioè che venga accolta. 

2. Il dono di Dio nella persona del Figlio va accolto. Mangiare e bere significa aderire senza riserve a Cristo che si è donato per la salvezza del mondo. I giudei si rifiutano di credere che la salvezza possa venire da un uomo che dona se stesso e che la loro vita eterna possa dipendere da quel Gesù. Essi rifiutano l’incarnazione e negano che la morte in croce sia sorgente di vita per tutti gli uomini. Sanno che la salvezza viene da Dio, ma non riconoscono Gesù come l’inviato da Dio.

I credenti che «mangiano e bevono» la carne e il sangue di Gesù avranno la sua stessa vita. “Coloro che credono nel suo nome, non da sangue, né da volere di carne, ma da Dio furono generati” Gv.1,12-13.

Mangiare la carne e bere il sangue stabilisce una relazione profonda, che non è di fusione, come può lasciar supporre il cibo assimilato dal corpo, ma è di coabitazione, di dimora reciproca, di comunione. E’ una precisazione che fa Gesù stesso: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Appropriarsi dell’insegnamento di Gesù, significa entrare nell’amicizia divina. Dice S. Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.

Questo legame reciproco tra il Figlio di Dio e il credente è possibile grazie alla stretta relazione che il Figlio ha con il Padre. Il Padre è colui che genera la vita. Il Padre fa vivere il Figlio e lo invia, il Figlio fa vivere il credente che si nutre di lui. “Come mi ha mandato il Padre, che è il vivente e io vivo grazie al Padre, così anche colui che si ciba di me vivrà grazie a me”.

Ogni vita può esistere solo nella comunione con il Padre. Il credente è messo in comunione con il Padre dal Figlio. Gesù insiste perché crediamo in lui. Il frutto di questa fede è la relazione trinitaria.

3. La comunità cristiana che celebra la liturgia pasquale non separa la presenza del Risorto dal ricordo della sua morte. L’eucaristia (rendimento di grazie) è presenza di Gesù che fa dono di se stesso perché i discepoli siano partecipi della sua stessa vita. Con l’atto simbolico di condividere il pane e il calice, l’assemblea esprime la comunione con Colui che vive mediante il Padre, in reciproca coabitazione.

Paolo, nella seconda lettura, ci ricorda che la comunione con il corpo di Cristo genera la comunione ecclesiale. Pur essendo molti, siamo un corpo solo, perché partecipiamo dell’unico pane.

Nel libro della Didaché c’è questa preghiera che possiamo fare nostra: «Come i grani di frumento che sono germinati sparsi sulle colline, raccolti e fusi insieme, hanno fatto un solo pane, così, o Signore, fa una cosa sola di tutta la tua Chiesa, che è sparsa su tutta la terra; e come questo vino risulta dagli acini dell’uva che erano molti ed erano diffusi per le vigne coltivate di questa terra e hanno fatto un solo prodotto, così, o Signore, fa che nel tuo sangue la tua Chiesa si senta unita e nutrita di uno stesso alimento».

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TEMPO ORDINARIO  10  A  2005

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La parola proclamata oggi ci parla dell’amore. Affrettiamoci a conoscere il Signore.

Osea dice che il popolo dimostra desiderio di conoscere Dio, convinto che egli verrà.

Come viene l’aurora ad iniziare il giorno, come viene la pioggia a fecondare la terra così Dio verrà per noi e sarà luce al nostro cammino e darà fecondità alla nostra vita.

Anche noi ci siamo affrettati a venire, nella comunità riunita nel giorno del Signore, spinti dalla stessa convinzione: Dio viene in mezzo a noi, nella parola e nell’eucaristia.

Dio però non si dimostra entusiasta di questa decisione del suo popolo, perché vede che è superficiale. L’amore del popolo non è profondo, costante e fedele com’è l’amore di Dio.

Il vangelo ci aiuta a capire questo messaggio, perché ci presenta come ama Gesù.

o       Egli chiama un pubblicano a seguirlo per diventare apostolo.

Questo scandalizza i farisei, che erano convinti che un buon ebreo non poteva fare il mestiere di esattore delle tasse, perché richiedeva la collaborazione con lo straniero e perché era un mestiere furbo, essendo facile maggiorare i tributi a proprio vantaggio.

o       Gesù giace a mensa con i pubblicani e i peccatori. Altro scandalo per i farisei.

Mettersi a mensa dimostra  amicizia e farlo con i peccatori viola la purità rituale.

Il nome “farisei” significa “separati”; essi infatti non si univano mai con i peccatori.

Gesù fa scelte opposte ai farisei: si prende cura dei peccatori, come il medico si prende cura dei malati, e li chiama a partecipare al regno di Dio. Chi fra loro è fedele a Dio?

Gesù si appella al profeta Osea che scrive: voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più che gli olocausti. Che cosa significa? Dio è innanzi tutto amore.

Il suo amore non può essere che misericordia, perché il popolo è peccatore.

Gesù manifesta la misericordia di Dio proprio chiamando i peccatori a seguirlo.

Una domanda per noi: come esprimere la misericordia oggi? Come evitare di vivere separati dai peccatori e nello steso tempo evitare di farsi solidali con il peccato?

Gesù sta con i peccatori ma non è solidale con i loro peccati; egli li chiama a farsi solidali con lui, ad entrare nel regno dei cieli. Gesù si incarna non per essere uomo tra gli uomini ma perché gli uomini entrino nel regno di Dio.

Essere solidali senza offrire loro la possibilità di salvarsi è tradire il vangelo.

Qui c’è un richiamo attuale. La maggioranza dei cristiani adotta la mentalità e i costumi del mondo d’oggi, tradisce i valori sacrosanti indicati da Dio e si dichiara cristiana.

In questo modo, la religiosità, quando c’è, si fa rituale. E’ fatta di gesti, di parole e di pratiche senza la conversione del cuore. Anche la Messa e i sacramenti perdono la loro grazia, diventano “cerimonie” civili e non salvano niente.

La parola ci stimola ad interrogarci. Noi da che parte stiamo, che religiosità pratichiamo? L’ascolto della parola ci porta ad accoglierla, a cambiare il cuore e a portare frutti di conversione? Il Signore, oggi come ogni domenica, è a mensa con noi peccatori.

Si fa nostro cibo per darci la forza di vivere in lui e come lui. Dopo questa esperienza dobbiamo guardare gli altri con bontà, misericordia e perdono, come faceva Gesù.

Se non lo facciamo significa che la nostra religiosità non ci ha portato a incontrare Dio.

La risposta di Levi alla chiamata di Gesù diventa esemplare per noi.

Egli decide subito di seguire Gesù, fa una scelta radicale, dimostra di aver fede come Abramo ebbe fede. Levi segue Gesù senza sapere quello che gli accadrà.

Se Dio può far nascere un figlio da corpi considerati morti, può suscitare anche amore e speranza nei cuori morti dei peccatori e può garantirci un futuro che ancora non vediamo.

Preghiamo insieme perché Dio ci doni di capire e di vivere quello che ci ha detto.

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ORDINARIO  11  A  2005

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La parola che abbiamo ascoltato ci educa a vivere bene l’alleanza con Dio.

Es 19 racconta che Dio chiama Mosè sul Sinai, gli parla e poi lo manda al popolo ebreo per riferirgli le parole dell’alleanza. Mt 9 racconta che Gesù chiama a sé i Dodici, li forma e li manda ad annunciare il regno di Dio. In tutte due gli eventi lo scopo della chiamata, del dialogo e della missione è promuovere l’alleanza di Dio con il suo popolo.

Del racconto dell’esodo noi ricordiamo soprattutto le dieci parole, i dieci comandamenti.

Ci sforziamo di capire che non sono una legge ma la strada dell’alleanza aperta da Dio.

In realtà nel testo odierno Dio comunica al popolo l’amore grande che prova per lui.

Dio aveva tratto Israele dalla schiavitù dell’Egitto, facendo grandi prodigi contro gli Egiziani, e stava per introdurlo nella terra dell’abbondanza, che gli aveva promesso.

Lo aveva sollevato su ali d’aquila, cioè lo aveva portato in alto, al sicuro accanto a lui.

L’alleanza offerta da Dio non è come quella che stipulano gli uomini, sempre insicura e minacciata, ma è una nuova condizione di vita ed  è per sempre come la vita di Dio.

Dio prende a parte per sé il popolo, come uno sposo prende a parte per sé una vergine. Israele sarà sacra a Dio e partecipe della sua santità, perché parteciperà alla sua gioia.

E’ l’alleanza sognata da Dio. Essa richiede che Israele ascolti attentamente il suo Dio e custodisca l’alleanza come la cosa più preziosa offerta alla sua vita. Dio descrive la vita nuova del popolo dell’alleanza come sacerdozio regale e santità. Si tratta cioè di una comunione senza difetti e senza limiti, primizia del regno dei cieli.

Mt 9 racconta Gesù che cammina predicando il vangelo del regno e guarendo le persone.

Egli è preso da una grande amore, la compassione verso le folle e la loro solitudine. Matteo usa l’immagine del gregge stanco e abbandonato, perché ancora senza pastore.

Una situazione disperata come quella di Israele nel deserto; un popolo senza terra, senza identità e senza regno, a cui Gesù dona l’amore grande, che sacrifica la sua vita per loro.

Gesù chiede alle folle la preghiera perché Dio mandi operai per costruire il suo regno.

La preghiera esprime il desiderio della sposa che la vigna sia lavorata e fatta fruttificare, perché ci sia vita per tutti; per Dio che sogna il regno dell’alleanza e per le folle abbandonate che ne hanno estremo bisogno. La misericordia di Gesù e il lavoro degli operai costruiscono il regno dei cieli. E’ un’alleanza costituita dal dare e dal ricevere gratuitamente, senza calcoli umani ma assecondando la spinta infusa da Dio.

Come risposta al desiderio di Dio e al bisogno delle folle Gesù chiama a sé i Dodici e li invia a lavorare nella vigna di Dio. La loro missione sarà di recuperare le pecore perdute della casa di Israele e di annunciare il regno dei cieli, come una realtà che si è avvicinata, perché Dio e l’uomo si sono alleati.

Questi due testi biblici ci educano a vedere l’amore di Dio che sente e vede le sofferenze del suo popolo e scende a liberarlo; un Dio attento, partecipe  e compassionevole.

Il Dio che sente compassione non coccola il suo popolo lasciandolo com’è, ma lo sveglia, lo getta in cammino, gli fa attraversare il deserto, lo educa a credere al regno, ad amarlo e ad impegnare la sua vita per costruirlo insieme con lui. Essere compassionevoli significa vedere la compassione di Dio che agisce nel cuore degli uomini e convincerli ad affidare ad essa il proprio destino. La preghiera indica l’umiltà con cui dobbiamo svolgere la missione: non offriamo qualcosa di nostro ma creiamo spazio nel cuore degli uomini perché credano e accolgano l’amore di Dio. E’ questo il percorso nuovo della missione che il Signore ci affida. L’umiltà di condividere con gli altri quell’amore di Dio che abbiamo conosciuto e che è la nostra gioia.

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ORDINARIO  12  A  2005

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Da questa domenica fino a settembre alleggeriamo la celebrazione dell’eucaristia.

Una lettura sola prima del vangelo. Il celebrante la sceglie, introduce la celebrazione e fa una omelia meno impegnativa. Anche i canti e riti saranno essenziali. Credo che in tempo di caldo la brevità favorisca la partecipazione personale e comunitaria alla preghiera.

Il vangelo di Mt che abbiamo letto ci propone per la riflessione e la preghiera tre cose.

La vita cristiana è profetica. Il profeta non è uno che predice il futuro ma uno che interpreta il vangelo nel tempo presente per rendere possibile il futuro voluto da Dio. Gesù è stato profeta perché, nel suo tempo, ha annunciato il vangelo, che era compimento dell’AT ma anche novità di vita, contro i ritardi delle autorità e i peccati del popolo.

La sua vita era profezia perché attuava la volontà di Dio ed era esempio, cioè strada che egli apriva a quanti volevano essere fedeli alla parola di Dio, anche fino alla morte.

Il profeta denuncia errori, ingiustizie e compromessi e indica le strade su cui cammina il regno di Dio. La prima lettura ci propone la vita del profeta Geremia, che era perseguitato perché costretto a dire cose spiacevoli per i suoi contemporanei, spiacevoli per chi non le accoglieva ma belle per chi cercava di conoscere e fare la volontà di Dio.

E’ importante che in ogni tempo, soprattutto nel nostro tempo che cambia rapidamente, ci siano i profeti che traducono il vangelo in parole, iniziative e gesti nuovi, attuali e credibili oggi. Il motivo per cui annunciamo e spieghiamo con abbondanza la parola di Dio è quello di rendere vivibile la profezia oggi. La profezia è l’attuazione della Parola.

Far vivere la profezia è compito di tutto il popolo di Dio. E’ il primo aspetto della missione: andate e annunciate il vangelo a tutte le creature. Chi lavora in fabbrica o nella scuola, chi è professionista, chi fa politica porterà nel suo ambiente e nelle relazioni possibili il vangelo e la grazia di essere sacramento del Regno. Ci sono sempre occasioni per difendere la propria fede, comunque si può sempre trasformare il lavoro in preghiera.

E’ necessario però vivere in conformità al vangelo e non secondo la mentalità mondana e promuovere il diritti delle persone, evitando di arroccarsi in posizioni fondamentaliste.

Anche all’interno della comunità è necessario il rispetto dei diversi carismi e dei tempi di crescita delle persone. Bisogna accettare che ci siano anche ritardi, limiti e peccati.

Il vangelo ci insegna a praticare la correzione fraterna, cioè a confrontarci personalmente con il fratello che, a nostro giudizio, sbaglia. Se ti ascolta, dice il vangelo, avrai guadagnato il tuo fratello. La preoccupazione non è vincere il fratello ma guadagnarlo.

Se non ti ascolta parlane con lui nel gruppo di cui fai parte e solo se non ti ascolta neanche lì, parlane, sempre con lui presente, all’assemblea. Molte volte noi facciamo l’inverso, parliamo con l’autorità religiosa senza che il nostro fratello sappia quello che diciamo di lui oppure ne parliamo con la gente, senza che egli lo sappia e possa difendere le sue ragioni. Questa non è la profezia che salva ma è maldicenza, mancanza di coraggio e di responsabilità ecclesiale; è dividere invece che unire.

Per essere profeti occorre avere tanta fiducia in Dio. Non temere! è il messaggio costante che Dio rivolge a coloro che chiama e invia. Il Signore ci conosce e ci ama, più dei passeri o dei fiori del campo. E soprattutto Dio difende la sua causa, è il primo missionario, colui che manda e consegna il Figlio. Il Figlio sa che il suo spirito è nelle mani del Padre. Ha fiducia in lui.

Nel ritiro di fine anno pastorale abbiamo sottolineato che la Chiesa è santa e peccatrice insieme. Questa è e sarà la realtà. Occorre vincere il male con bene e promuovere il bene che c’è. Pensiamo ai martiri, ai vergini, ai consacrati, agli sposi che vivono il  matrimonio come sacramento anche nei momenti di fatica; pur nei loro difetti le persone sono anche visitate dalla parola, consacrate dai sacramenti, abitate dalla santità. Anche nella nostra comunità c’è tanto bene. Valorizzarlo significa riconoscere l’opera di Dio.

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ORDINARIO  13  A  2005

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La pagina di Matteo che abbiamo letto contiene alcuni detti di Gesù sulla vita cristiana.

Ci fermiamo ai primi tre, che sono legati fra loro e con la prima lettura.

1  Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me non è degno di me.

Non essere degni significa non poter aver parte con Gesù, come egli dice a Pietro quando rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. Pietro reagisce immediatamente per non perdersi.

Anche noi dovremo lasciarci provocare. Che senso dare a queste espressioni di Gesù?

Innanzi tutto richiamiamo la prima lettura. Una donna di Sunem accoglie in casa il profeta Eliseo quando, nel cammino per compiere la sua missione profetica, passa di là. Chiede al marito di ritagliare nella casa uno spazio per lui: una stanza in muratura, un letto, una tavola, una sedia e una lampada. Questa accoglienza generosa al profeta di Dio ottiene per lei la ricompensa del profeta. Quale? Il profeta reagisce ai tempi di aridità e di tradimento  annunciando il futuro nuovo che Dio apre. Non lo annuncia solo a parole ma con la passione e convinzione di chi impegna la sua stessa vita. La sua ricompensa sarà vedere quel futuro per cui si dona, cioè il realizzarsi della profezia.

La donna di Sunem ha dal profeta l’annuncio che avrà un figlio, cioè che Dio le aprirà davanti il futuro che lei aveva tanto sperato così da impegnare la vita nel matrimonio.

E’ il segno che le relazioni familiari sono dono di Dio, che attraverso la sponsalità e la famiglia ci rende partecipi alla sponsalità di Cristo e della Chiesa e alla sua famiglia.

E’ l’idea della famiglia come esperienza del divino che attraversa tutta la bibbia; è l’esperienza universale, la profezia che tutti gli uomini abbracciano per avere pienezza di vita, il futuro che Dio ci prepara all’umanità, le relazioni di amore simili alle sue.

Gesù istituisce un paragone tra relazione con i familiari e relazione con lui.

In Luca chiede di odiare i propri familiari e in Giovanni di odiare la propria vita.

In Matteo annuncia che i discepoli devono amare più lui che i familiari; annuncia cioè un futuro diverso voluto da Dio in cui tutti vivranno della relazione con Gesù.

Nel prologo Giovanni dice chiaramente che tutte le cose furono fatte per mezzo del Verbo e che senza di lui non ne fu fatta neppure una sola. Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini. Gesù va amato più di tutti perché possiede e dà la pienezza della vita. E’ sulla linea delle cose che appartengono anche alla vita umana.

I figli lasciano i genitori per farsi una loro famiglia ed la amano più della prima. Questo fa sì che l’amore continui ad espandersi e a legarsi. Se non ci fosse questo amare di più, questo lasciare vecchie relazioni per le nuove la vita sulla terra non avrebbe futuro.

Il discepolo però deve avere chiara l’idea di fondo: Gesù va amato di più di tutti perché è la pienezza della vita per tutti. Nessun altro ci domanda di lasciare Gesù per avere la pienezza. Solo il tentatore dice questo ma noi sappiamo che il diavolo è bugiardo.

Chi non prende la sua croce e non segue dietro a me, non è degno di me.

La croce è centrale nella vita di Gesù e della Chiesa, perché è la strada della trasformazione, il crogiuolo dove si affina l’oro e l’argento purificandoli dalle loro scorie, il dolore che accompagna il parto della vita. La croce è stato questo nella vita di Gesù, e lo è ancora per chi segue dietro Gesù, per chi la abbraccia per arrivare dove è arrivato lui. Il dolore ha senso solo nella nuova creazione, nella redenzione.

Chi ha trovato la sua vita la perderà e chi ha perduto la sua vita a causa mia, la troverà.

La vita vale la pena di essere persa non perché è un male, ma per la causa di Gesù, cioè per rendere possibile cieli e terra nuovi. Solo la croce di Gesù confina con la gloria.

Preghiamo perché la parola di Dio ci penetri e noi ci lasciamo trasformare vivendola.

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ORDINARIO  14  A  2005

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Abbiamo letto gli ultimi versetti del cap. 11 di Matteo; siamo quasi a metà del vangelo.

La predicazione di Gesù in Galilea non ha avuto successo. Nonostante la sapienza contenuta nell’annuncio e i segni compiuti da Gesù, il messaggio non è stato accolto.

I sapienti e gli intelligenti, gli scribi e i farisei, i ricchi e quelli che costituiscono la rete del potere tra la gente si sono chiusi al vangelo; i piccoli invece, credono in Gesù.

Gesù verifica il suo lavoro davanti al Padre nella preghiera e davanti ai discepoli.

I sei versetti che abbiamo ascoltato sono un tesoro di sapienza per ogni verifica cristiana. Riconosco a te, Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Si, o Padre, perché così è stata cosa gradita davanti a te.

Il successo della missione è assicurato perché è il Padre ad aver nascosto ai sapienti e rivelato ai piccoli. Gesù riconosce che il Padre agisce con lui e lo conferma n. missione.

Verifichiamo come va la missione oggi, con le parole di alcuni sapienti del XX secolo.

Pietro Citati ha scritto che il disagio esistenziale è come un gas diffuso in ogni angolo dell’Occidente. Vittorino Andreoli, dopo aver studiato il caso dei giovani piemontesi che, tirando i sassi dal cavalcavia, avevano ucciso una sposa in viaggio di nozze, ha detto: “Questi giovani non sono malati e neppure cattivi; purtroppo sono vuoti e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”. Victor Frankl scrive: Oggi ci confrontiamo con una frustrazione esistenziale: sentiamo la vita insignificante, e un senso di vuoto interiore.

Le persone hanno bisogno di una luce che dia senso alla vita, rendendola bella e quindi degna di essere vissuta. Mario Soldati ha scritto che il mondo oggi soffre per aver perduto la religione e che quasi tutta la poesia di oggi è rimpianto di una religione perduta. Norberto Bobbio ha scritto: “Siamo circondati dal mistero. Sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alla domanda ultima. La mia intelligenza è umiliata”. Giuseppe Prezzolini dichiarò: “Eccomi qui solo, disperato, senza verità e senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a queste domande: dove sono? Da dove vengo? Dove vado? Non so chi interrogare”.

Noi cristiani siamo portatori della risposta meravigliosa che il Padre dà attraverso Gesù.

Per rispondere alla domanda sul senso della vita dobbiamo saper onorare le ragioni dell’intelligenza non umiliata ed avere la fede, che aveva Gesù, che è il Padre che agisce in noi quando annunciamo il vangelo. La proposta è il vangelo e non le devozioni e i miracoli e la conferma viene dai piccoli e non dall’accoglienza dei sapienti del mondo.

Bisogna purificare la nostra pastorale e la nostra vita personale e comunitaria.

La pastorale non è un piano d’azione sganciato dalla vita delle persone, perché quando ci sono progetti pastorali ma non ci sono apostoli, cioè testimoni, non c’è apostolato.

Ecco il grest come risposta alla domanda di senso dei nostri giovani, come un tempo in cui, attraverso il tema che sarà sviluppato, il gioco, la preghiera, la manualità, le gite, il dialogo fra le varie età, tutti scoprono la gioia della creatività, dell’amicizia e della fede.

Abbiamo preparato gli animatori con un corso tenuto da un esperto delle conoscenze psicologiche e tecniche necessarie a un buon animatore; abbiamo fatto un ritiro di tre giorni in montagna per conoscere la figura di Gesù animatore, il vangelo della vita e della grazia, che formano ai valori alti e belli della vita. La parrocchia non fa un grest a metà, fatto cioè solo di proposte umane. Propone una testimonianza di vita in cui vangelo, fede e grazia sono gli elementi portanti. Ecco perché il grest inizia oggi, giorno del Signore, quando la comunità cristiana si riunisce nell’ascolto di Dio e nella preghiera.

Che il grest sia educativo dipende dalla simpatia e dalla preghiera di tutta la comunità.

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ORDINARIO  15  A  2005

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Chi ha orecchi, ascolti. L’orecchio recepisce tutti i suoni. La persona seleziona quelli che vuole ascoltare. La parola di Dio merita attenzione continua, perché è facile presumere di sapere e non valorizzare, mentre la parola è viva-attuale. L’omelia che sto facendo è uguale per tutti ma produce effetti diversi. Dipende da come uno comprende la parola.

Comprendere deriva dal latino cum prehendere e significa prendere con sé, confrontare parola e vita, con simpatia, con passione sia per la parola sia per la vita. E’ quel continuo rimbalzare della parola nel cuore, che era la caratteristica dell’ascolto di Maria.

Può essere un ascolto personale, fatto in gruppo o con un accompagnatore spirituale.

La parabola propone quattro esemplificazioni. Naturalmente possono essere di più.

o       Uno può ascoltare e non comprendere, non accogliere la sfida che la parola porta.

Comprende il senso delle parole ma la vita non viene toccata. Il cuore riceve la parola come la strada riceve la semente, l’una resta estranea all’altra; la parola resta in superficie e il maligno la porta via. E’ possibile che non assorbiamo la parola come la terra può non assorbire l’acqua e restare infeconda. La Chiesa deve favorire questa comprensione.

La gente dopo l’omelia dovrebbe poter dire non “che bella predica!” ma “che bel vangelo!” Siamo passati dalla liberazione della Scrittura operata dal Concilio, alla stesura del catechismo della Chiesa cattolica, la parola incapsulata in formule teologiche, ed ora al Compendio del catechismo, cioè alle domande e risposte da mandare a memoria, come ai tempi di Pio X.

o       Uno accoglie la parola con gioia ma non gli permette di mettere radici in se stesso.

Accade a chi è incostante nel cammino di fede. E’ noto che la parola genera tribolazione e persecuzione, perché la cultura di Dio e quella umana sono diverse. Per Dio la parola ha una grande forza creativa, fa crescere la creazione redimendola e trasformandola in regno di Dio. Ogni parto è lacerante e doloroso ma porta alla gioia di una nuova vita. Gesù proclama beati coloro che soffrono a causa del Regno di Dio. Per l’uomo la parola è come il seme in un terreno pietroso: attecchisce ma le pietre sono la sua tomba, perché le impediscono di crescere. La parola va accolta togliendo le pietre che la schiacciano.

Ognuno di noi deve liberare il campo della sua vita dai pesi che rubano spazi vitali.

o       Uno è preoccupato del mondo e insegue la ricchezza, il potere e gli onori.

Questi beni riempiono la persona e non lasciano respiro alla parola. La parola aveva attecchito ma viene soffocata da queste pre-occupazioni e diventa infruttuosa.

o       Uno ascolta e comprende e la parola porta frutto in lui secondo la comprensione.

C’è una differenza fra i santi: lo spazio dato alla parola, il tempo dedicato a studiarla e pregarla e praticarla, le strategie spirituali messe in atto per mantenerla viva.

Oggi ci sono persone che non hanno tempo per la parola, ci sono movimenti tutti dedicati al successo e a quello che gratifica al momento. L’ascolto della parola richiede anche studio serio, pazienza nelle difficoltà e perseveranza nella speranza. La parabola ci interroga: come comprendiamo la parola?

La profezia di Isaia annuncia l’efficacia della parola di Dio. La parola uscita dalla mia bocca non tornerà a me senza aver operato ciò per cui l’ho mandata. Sembra in contrasto con la parabola. In realtà è un altro aspetto; è ovvio che Dio non parla e non agisce invano e che l’uomo non può far fallire Dio. Sono due aspetti conflittuali. Bisogna cercare la risposta nella Scrittura. In Ger 1,12 il Signore dice: “Io vigilo sulla mia parola per realizzarla”.  Dio non dice solo ma realizza. Anche l’inizio della parabola concorda.

Il seminatore esce a seminare, continua a farlo e lo fa dovunque, con abbondanza.

Se non ascoltiamo la parola essa passerà ad altri. E’ già passata da Israele alla Chiesa e, nella storia cristiana, è passata dall’oriente all’occidente. Ora, che le nostre chiese si svuotano, sta passando dall’occidente all’America latina; in futuro c’è l’Asia e l’Africa.

Dio, dopo aver fatto il giro del mondo, può chiudere o iniziare un altro giro. Alla fine, anche se la maggioranza degli uomini avrà rifiutato o tradito la parola, gli eletti saranno moltitudini, secondo l’Apocalisse. Ognuno di noi deve decidere se comprendere con simpatia la parola nella propria vita, accettando le trasformazioni che opera in essa.

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ORDINARIO  16  A  2005

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Nelle parabole Gesù rivela le cose nascoste fin dalla creazione del mondo, il mistero nascosto, dice Paolo. Non basta capire il racconto; occorre vedere ciò che vi è nascosto.

Matteo oggi ci propone tre parabole. Propongo qualche spunto per la preghiera e la vita.

Il paragone tra chicco di senape e regno dei cieli. Il chicco più piccolo diventa il più grande degli ortaggi. Mt dice che diventa un albero. La botanica non conferma questa idea, ma Mt si interessa ai testi dell’AT in cui si parla degli uccelli del cielo che abitano tra i rami degli alberi. Ricordo tre capitoli molto belli, che vi invito a leggere.

Dn 4: Nabucodònosor racconta a Daniele una visione. Aveva visto un albero lungo, la cui cima raggiungeva il cielo; era così grande che si poteva vedere da tutta la terra. Aveva rami belli, frutti abbondanti; nutriva tutti, faceva ombra alle bestie e gli uccelli vi nidificavano. Ma Dio ordinò di tagliarlo, lasciandogli solo il ceppo e le radici.

Daniele spiega al re che l’albero raffigurava il suo regno e che Dio gli toglieva la potenza  finché non avesse riconosciuto che Dio è il vero re e che egli dona il regno a chi vuole.

Ez 31: Dio manda il profeta Ezechiele a dire al faraone d’Egitto che si crede grande.

L’Assiria era un albero alto, bello, ricco di frutti; gli animali partorivano alla sua ombra, gli uccelli nidificano sui rami; era invidiato da tutti gli alberi del giardino di Dio.

Poiché si era inorgoglito nel suo cuore, Dio lo dà ai popoli stranieri che lo abbattono.

Ez 17: Descrive uomini che piantano ramoscelli perché diventino l’albero più grande. Anche Dio prenderà un ramoscello e lo pianterà, farà frutti e diventerà magnifico; gli animali vivranno alla sua ombra e gli uccelli dimoreranno sui suoi rami.

Dio conclude: Io sono il Signore che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.  Gesù raffigura all’albero il regno di Dio, quello che il Padre ha dato a lui, il piccolo. Esso diventerà grande e bello e ospiterà tutti e li nutrirà. La parabola del chicco di senapa insegna a contare su Dio e a cercare prima di tutto il regno di Dio, perché diventerà bello, fecondo e fonte di vita.

La parabola del campo seminato a frumento e a zizzania dice alcune cose conosciute e altre che sono ancora da sondare. Il frumento e la zizzania devono crescere insieme fino alla mietitura, ma qual’è il frumento e quale la zizzania? I profeti sono stati ritenuti zizzania e sono stati scomunicati e uccisi, cioè delegittimati e sradicati dalla comunità. Anche Gesù è stato trattato da zizzania. Alla mietitura però Gesù e i profeti risultano il frumento buono per i granai di Dio. Ricordiamo i peccati della Chiesa. L’inquisizione mandava  al rogo chi non era conforme alla dottrina ufficiale, anche i santi. Anche oggi nella Chiesa tanti scartano quello che lo Spirito ha detto nell’ultimo Concilio. Le pietre scartate sono davvero scarto o pietre angolari del regno di Dio? Dio vuole che Pietro e Giovanni, l’istituzione e la profezia, vivano insieme. Una non va strappata a scapito dell'altra. Ricordiamo i tre primati che vi ho presentato nel ritiro conclusivo dell’anno pastorale. Ognuno di noi crescendo può passare da grano a zizzania e da zizzania a grano. Ci sono primi che risulteranno ultimi e ultimi che risulteranno primi. Il vangelo non domanda di stare con l’istituzione o con la profezia ma di comprendere Parola e vita.

Anche nella vita civile, la resistenza, la libertà di coscienza, la democrazia, i valori della rivoluzione francese e del marxismo, sono state cose demonizzate e poi valorizzate.

Tutto va vagliato dal vangelo e va valorizzato il buono, ovunque sia.

Infine la parabola del lievito che fermenta la pasta ci ricorda che il pane non è né lievito né pasta ma le due cose lavorate e cotte insieme. Chiediamo al Signore di liberarci dalle partigianerie, perché possiamo crescere sereni anche in un mondo dominato dal male.

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ORDINARIO  17  A  2005

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Mt ci presenta oggi tre parabole che utilizzano tre immagini: il tesoro, la perla e la rete.

Gesù li mette a confronto con il regno dei cieli. Forse per noi è meglio metterli a confronto con Gesù Cristo. Oggi, ad esempio, si scelgono i padrini con questo criterio: non è un credente o un praticante ma è una persona onesta. Si confonde regno di Dio con onestà. Essere cristiani significa invece credere in Gesù e appartenere a lui e  a coloro cui egli appartiene: il Padre, lo Spirito, il regno di Dio. La fede introduce in queste realtà.

I farisei moderni devono lasciare quello che possiedono, anche la ragione e la morale, per appartenere a Cristo. Oggi torna in voga, fra teologi e prelati, il culto della ragione.

Dicono che è dono di Dio e che tutto può essere vagliato e annunciato dalla ragione.

Ma la parola di Dio abita oltre la ragione ed essi annunciano solo ragionamenti umani.

Gesù è dono di Dio ed insieme mistero e comunica cose che la ragione non capisce.

Anche il cuore manifesta cose che la ragione non capisce; tanto più la sapienza di Dio.

o       Un uomo trova un tesoro in un campo e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

Il tesoro lo si trova dove lo mette Dio, perché sia scoperto. Il campo dove Dio nasconde il tesoro è la creazione, le religioni e, per i cristiani, la Chiesa; e il tesoro è Gesù Cristo.

Il Padre rivela suo Figlio a chi vuole e quando vuole. Non ci sono diritti o precedenze.

A chi trova Gesù Cristo è chiesto di seguire lui. Cristo infatti è per lui lo sposo che gli chiede di riorganizzare con lui tutta la vita. Nella sponsalità non ci sono mezze misure.

Chi perde la sua vita a causa di Gesù, è nella gioia; perché trova la vita eterna.

Che cosa si fa del tesoro trovato? Si estraggono da esso cose nuove e cose antiche.

Uno scriba, un esperto della parola dell’AT, quando diviene discepolo di Gesù, estrae da lui le cose antiche della sua fede israelitica e le cose nuove che Gesù porta con sé.

In Gesù c’è tutto e senza di lui non c’è niente, perché tutto è stato creato in lui.

Gesù è la luce vera che illumina ogni uomo. Dio, scrive S. Paolo, ci ha predestinati ad essere conformi al figlio suo che è per noi immagine. Conta su di me è il  motto del grest.

o       Una rete gettata o trainata nel mare raccoglie ogni genere di pesci.

La cernita viene fatta non dalla rete ma dai pescatori alla fine della pesca.

I pescatori raccolgono i pesci buoni e gettano via i cattivi. Nel mare i pesci sono insieme mentre per la mensa vengono scelti. Nessuno cucina insieme pesci buoni e pesci cattivi, funghi buoni e funghi velenosi, perché mescolati non porterebbero vita ma morte.

Questa parabola ricorda i novissimi. Un uomo che non ha fede in Gesù Cristo e non lo riconosce come Signore, non può entrare in paradiso, altrimenti il paradiso non sarebbe più tale. Il problema non è se Dio perdona tutti o no ma se gli uomini riconosceranno Gesù Cristo come Signore. I demoni non lo riconoscono e così non lo riconosceranno gli uomini che non appartengono a lui nella fede e nella grazia.

Il Signore ci ha creati perché aderendo a Gesù giungiamo alla verità tutta intera.

Possiamo immaginare un paradiso in cui gli uomini sono costretti a stare contro la loro libertà e senza amore? L’idea corrente è che il perdono sia una cosa facile, possibile all’ultimo momento, per bontà di Dio. La tentazione moderna è che Dio salva tutti.

Il diavolo ha insinuato ad Eva che Dio non voleva che gli uomini diventassero come lui. Oggi insinua che Dio è buono e porta tutti in paradiso senza pretendere niente da loro.

Il demonio ottiene lo stesso risultato: allontanare gli uomini da Dio. Essi non lo cercano e non cercano di appartenergli, perché pensano di godere la vita ora e il paradiso dopo.

Preghiamo il Padre di aggiungere fede alla nostra fede, perché perseveriamo nella fede  e nell’impegno di essere conformi al figlio suo, nostro salvatore.

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ORDINARIO  19  A  2005

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Una riflessione leggera ma non banale. Ci fermiamo su alcuni elementi dei brani biblici, trascurando il contesto e l’insieme, che sono sempre interessanti ma anche più faticosi.

1  Il racconto di Mt ha una costruzione simile ai racconti di risurrezione.

I discepoli pensano che Gesù che cammina sulle acque sia un fantasma, hanno paura, non riconoscono Gesù se non dopo l’intervento di Dio. Allora manifestano fede e meraviglia.

Mt così vuole darci un messaggio: Dio è presente nella nostra vita; occorre riconoscerlo nella fede e vivere alla luce della fede che lo riconosce.

2   La fede è ambivalente, cioè ha due valenze, ugualmente importanti.

Pietro chiede a Gesù: comanda che io venga da te sulle acque. E Gesù gli dice: vieni!

Pietro si fida, lascia la barca che rappresenta ancora una sicurezza e cammina nelle onde agitate dal vento. Crede in Gesù ma cede alla paura e comincia ad affondare.

La stessa cosa gli accade mentre cammina con Gesù e i discepoli verso Gerusalemme e fa la sua bella professione di fede in Gesù, riconoscendolo come figlio del Dio vivente.

Gesù lo dice beato perché ha ricevuto la rivelazione dal Padre, ma poco dopo lo chiama satana perché nella vita pratica cerca di distogliere Gesù dal fare la volontà del Padre. Pietro si dimostra uomo di poca fede, a detta di Gesù stesso.

Dimostra una valenza della fede, la fede della mente e del cuore.

Non conserva la fede nelle difficoltà del cammino, cioè dentro le persecuzioni dove si costruisce il Regno; non le vince con la forza della fede come fa Gesù nella passione.

E’ la fede staccata dalla vita, la fede dei compendi del catechismo, che si dicono a memoria ma che non riscaldano il cuore come il confronto con la parola di Dio.

Tutti i credenti corrono il pericolo di scendere a compromessi per salvare la vita o il successo o tanti interessi umani. Contano sui loro ragionamenti, sulle loro amicizie e pretendono di salvare il regno con la loro diplomazia. Quando si comportano così, finiscono con il tradire la fede ed affondare e diventano uomini di mondo.

Hanno poca fede anche coloro che vivono solo la valenza della vita, cioè che praticano la giustizia o il vangelo ma non fanno riferimento e affidamento in Dio ma solo nell’uomo.

Possono dare una bella testimonianza umana ma questa da sola non fa il regno di Dio.

Lo dice anche il salmo uno: maledetto l’uomo che confida nell’uomo.

3   Dove o come possiamo incontrare Dio?

Gesù, congelata la folla, sale sul monte solo a pregare; e a sera è ancora là.

Elia sale sul monte Oreb (Sinai) e attende Dio, riparato entro una caverna.

Ad un certo momento sente un silenzio sottile. (Così scrive il testo masoretico che la Cei traduce: un mormorio di vento leggero). Che cosa significa?

Non basta entrare nel silenzio, se ci stiamo con il peso dei nostri pensieri, sentimenti e sicurezze; se pretendiamo di vedere o di provare. Il silenzio può essere un muro pesante, o un terremoto che sconquassa o un fuoco che brucia tutto. Non bastano neppure le pretese di bene, come Pietro che chiede di camminare sulle acque. Se contiamo su ciò che è umanamente grande o percepibile o valutabile, impediamo a Dio di manifestarsi.

La presenza di Dio accade nel silenzio sottile, cioè egli si fa presente e assente insieme. Si fa presente soprattutto nei momenti della prova. La tribolazione produce pazienza, la pazienza virtù provata, la virtù provata speranza. E nella speranza noi incontriamo Dio. Dio è presente nel silenzio della preghiera, come quella di Gesù solo sul monte.

Egli, dopo la moltiplicazione dei pani, si ritira sulla montagna a pregare.

Godere del successo umano per i segni che compie gli impedirebbe di esser l’Amato.

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ORDINARIO  20  A  2005

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Gesù aveva rimproverato, per la loro poca fede, i discepoli nel lago in tempesta 8,26 e Pietro mentre camminava sulle acque incontro a lui 14,31. Qui invece loda una donna di Canaan, che gli chiedeva aiuto, dicendole: Davvero grande è la tua fede!

Il racconto mette in luce la potenza della fede ed educa a coltivarla. La donna conosce la religione ebraica, perché chiama Gesù: figlio di Davide. Essa ha una figlia tormentata da un demone, una malattia spirituale, che la fa soffrire tutta, anche nel corpo.

Gesù era sensibile a questo perché era venuto per combattere e scacciare i demoni.

Egli mantiene verso di lei un riservo, che prova la sua fede e finisce per esaltarla invece che scoraggiarla. Innanzitutto sta in silenzio: non rispose a lei parola.

Gesù sembra preso tra due fuochi: la fede della donna e la missione che ha ricevuto di andare solo alle pecore perdute d’Israele. Perché la missione di Gesù è limitata ad Israele? Perché questa differenza di trattamento fra Israeliti e pagani?

Perché Dio si è scelto un popolo fra tutti, lo ha attirato a sé su ali d’aquila, ha stabilito un alleanza con lui e insieme a lui accoglie tutti i popoli per costituire una famiglia nuova.

E, nella pienezza dei tempi, invia il Figlio per costruire su di lui una umanità nuova ed una alleanza feconda che porta la possibilità della salvezza fino ai confini della terra.

La salvezza non cammina in ordine sparso ma secondo il disegno d’amore di Dio.

I suoi discepoli hanno poca fede, la donna pagana ha una fede grande.

Il suo silenzio è interrotto dai discepoli che gli chiedono di mandarla via, perché il suo grido di aiuto dà fastidio, e dalla donna che gli si prostra davanti e gli chiede: salvami.

Gesù provoca chiarezza con l’immagine del pane dei figli e dei cagnolini. Egli rivendica che i pani sono per i figli e la donna afferma che ne resta anche per i cagnolini.

Il pane nella fede biblica è simbolo del banchetto sovrabbondante di Dio.

“Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio” esclama uno degli invitati esortati da Gesù a invitare a pranzo coloro che non hanno possibilità di ricambiare. Lc14,15 “Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” risponde Gesù al diavolo che lo tenta 4,4. Gesù stesso con  5 pani e 2 pesci sfama 5000 uomini 14,15 e dice di essere il pane vivo, che è disceso dal cielo e dà la vita al mondo.

La donna professa questa fede biblica e con questa fede ottiene quello che desidera.

Isaia insegna che il tempio di Dio è casa di preghiera per tutti i popoli. Essi però sono chiamati ad aderire al Signore per servirlo, ad amare il nome del Signore, a santificare il giorno del Signore e ad essere fermi nella sua alleanza nella religione in cui vivono.

E noi, che conosciamo il Signore e siamo suoi figli, abbiamo mille ragioni in più per vivere nella fede in Dio e nella fedeltà all’alleanza; la più importante è che siamo fatti luce per vincere le loro tenebre e lievito per lievitare la loro pasta.

Bisogna educare la nostra fede, alla luce della parola di Dio che è lampada ai nostri passi nel cammino ecclesiale, bisogna chiedere a Dio che aggiunga fede alla nostra fede, perché la lampada non si spenga nelle asperità del cammino, bisogna aiutarsi nella comunità a celebrare la fede entro le tribolazioni che siamo chiamati a sopportare. 

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ASSUNTA 2005

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Un  dogma è sempre difficile da interpretare e da vivere. Il dogma dell’assunzione è stato proclamato nel 1950, e quindi è recentissimo rispetto alla storia della Chiesa.

Vigeva allora una ecclesiologia che il Concilio Vaticano II ha superato e le chiese cristiane erano profondamente divise. E’ stato percepito come esaltazione della persona di Maria al di fuori della dinamica ecclesiale e cristologia. Il Concilio insegna che Maria va amata in Cristo e nella Chiesa. Cerchiamo, nel limiti di tempo di un’omelia, di vedere l’assunzione di Maria com’è oggi nella fede cristiana. Ricordiamo che la fede non è aderire al passato ma rischiare la nostra vita nella direzione che il dogma indica.

Nelle due ultime domeniche abbiamo meditato sulla fede. Oggi abbiamo sentito il saluto di Elisabetta a Maria: Beata colei che ha creduto che saranno compiute le cose che sono state dette a lei dal Signore. La Parola indica una direzione e Maria la compie nella vita.

Il prefazio dice: Dio ha rivelato il mistero della salvezza in Maria, primizia e immagine della Chiesa. La donna descritta nella prima lettura rappresenta la comunità cristiana minacciata dal drago, cioè da Satana e da tutte le potenze negative che pretendono di dominare la storia. La donna gridava per le doglie e il travaglio del parto. Nella passione viene partorito il Risorto, che poi è rapito verso Dio e verso il suo trono, cioè nella risurrezione e nella gloria. La Chiesa fugge nel deserto dove Dio la protegge dalle minacce di Satana. Dentro le contraddizioni e le persecuzioni la Chiesa è assicurata dalla forza di Dio. La profezia si conclude con il canto di lode, in cui si proclama che si sono compiuti il regno di Dio e la potenza del suo Cristo. Dio ha vinto il diavolo e il mondo.

Il vangelo ci rimanda all’incarnazione, inizio della nuova alleanza. La visita ad Elisabetta è legata intimamente alle parole dell’angelo che annunciano la maternità di Elisabetta.

I due bambini portati in grembo dalle due donne segnano l’inizio della redenzione.

Maria è la credente che porta in grembo il Messia e la comunità cristiana è la credente che porta in grembo il Risorto. Alla Chiesa Dio ha donato Gesù e lo Spirito santo, per portarla alla pienezza della verità e della grazia. Come Elisabetta ha riconosciuto la maternità di Maria, così ogni uomo deve riconoscere la maternità della Chiesa.

Il dogma dell’assunzione indica alla Chiesa la direzione del cammino ecclesiale ed invita a una incessante ascensione spirituale. L’assunzione di Maria non è un evento speciale riservato a lei, quasi un premio alla sua fede e alla sua obbedienza.

Non è aggiunta o sovrapposizione alla sua vita ma è il compimento del suo cammino, che è stato una continua ascesa verso Dio per compiere il disegno della salvezza.

E’ anche il termine che ognuno di noi è chiamato a raggiungere, sollevandosi dalla condizione umana e mortale. Siamo chiamati a santificare tutte le cose, per realizzare lo stesso compimento di Gesù, di Maria e della Chiesa.

Il prefazio dice ancora: in Maria Dio ha fatto risplendere per il suo popolo un segno di consolazione e di speranza. La liturgia oggi canta: grandi cose ha fatto in me l’onnipotente. Sono le grandi cose che Dio ha fatto e continua a fare nella Chiesa.

Oggi non siamo chiamati a celebrare una liturgia celeste, cioè a festeggiare Maria gloriosa fra gli angeli e i santi. Sappiamo troppo poco di questa realtà celeste e siamo ancora mortali e peccatori per farne parte. Celebriamo invece nella gioia una liturgia terrestre in cui ringraziamo Dio di averci dato in Maria consolazione e speranza, per continuare a dire il sì della fede al futuro che egli vuole preparare alla Chiesa.

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ORDINARIO  21  A  2005

* Omelia tenuta dal diacono Elio Tardivo *

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Isaia, nella prima lettura annuncia che Shebna, primo ministro di Ezechia, sarà rovesciato e sostituito con Eliakim perché il suo lusso sfrenato e la sua superbia lo hanno allontanato da Dio.  Egli ha costruito difese contro la minaccia dei nemici, ma ha dimenticato che la difesa del Paese e la salvezza de! popolo viene da Dio. Perciò Dio stesso gli toglierà il potere per darlo a Eliakim.

L'investitura del nuovo primo ministro, descritta con i simboli della tunica, della cintura e della chiave, sta a indicare che coloro che sono preposti alla guida del popolo di Israele devono promuovere e tutelare l'alleanza con Dio ed essere fedeli a questo mandato. In caso contrario. Dio toglie a loro il potere conferito.

La profezia di Isaia ci rimanda all'episodio raccontato da Matteo. A Cesarea di Filippo Gesù pone ai discepoli una domanda decisiva:  «Chi dice la gente che sia il figlio dell'uomo?» Al massimo la gente ha capito di lui che fosse un profeta. A quel tempo la profezia non esisteva più in Israele. Il popolo sentiva il peso di questo silenzio di Dio ed attendeva la venuta di qualche profeta. Era ancora viva l'attesa di uno che instaurasse il regno messianico. Ma le speranze popolari erano di un re messia liberatore politico. Speranze umane, dettate dalla carne.

«Ma voi, chi dite che io sia?» Gesù ritiene inadeguata la risposta della gente e dai discepoli ne esige una diversa, che si contrapponga a quella dei desideri umani. La domanda è fatta in un momento importante. Tutti coloro che hanno ascoltato la sua parola e hanno visto i segni e i miracoli sono in grado di accoglierlo e di dare la risposta.

La sinagoga giudaica resta inflessibile nella sua ostinazione a non riconoscere il Cristo. Viene perciò abbandonata a se stessa. Dice Giovanni nel prologo: «E' venuto nella sua casa e i suoi non l'hanno accolto. A quanti però lo hanno ricevuto, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (1,11-12). Dalla confessione di Pietro, i! Regno dei cieli, promesso dal Padre e fondato da Gesù, prende forma nuova nella Chiesa.

Pietro, a nome degli apostoli, riconosce in Gesù il Messia inviato dal Padre, colui che porta a compimento le promesse fatte ad Israele e il figlio di Dio, quello vivente. Il Vivente è il nome dato a Dio nell'AT in sostituzione di Jahvè. A Gesù è riconosciuta l'origine divina.

Gesù ritiene soddisfacente la risposta e sottolinea che la confessione solenne di Pietro è un'intuizione che non può derivare dalla fragilità umana {dalla carne e dal sangue), ma è suggerita direttamente dal Padre, è un particolare dono di Dio. Per questo lo dichiara beato e lo stabilisce come prima pietra su cui edificherà la sua Chiesa, mettendogli in mano le chiavi del regno dei cieli. La fede in Cristo Signore dona la dignità di figli di Dio e fonda il potere ministeriale. Simone d'ora in poi si chiamerà «Kefa, Roccia», Pietro. Il mutamento del nome segna per lui la chiamata verso un futuro appena incominciato.

Ci vorrà del tempo e molta fatica prima di comprendere e accogliere il mistero di Cristo. La morte in croce sarà per lui e per i discepoli un evento difficile da accettare.

Oggi Gesù pone a noi le stesse domande. Nonostante secoli di cristianesimo, molta gente sa poco o nulla di lui.

Dopo anni di predicazione dell'Evangelo, di celebrazione dei sacramenti e di vita ecclesiale, alcuni cristiani vivono come se lui non ci fosse. Altri gli preferiscono la devozione ai santi, ignorando la sua persona. Altri ancora si attardano in discussioni inconcludenti. Dubitano della sua divinità e della sua missione. Lo considerano una figura del passato. Identificano il Vivente con uno che è morto, ne onorano il sepolcro, ma non credono nella Risurrezione. Molti si dicono cristiani, ma la loro appartenenza è solo sociologica, non di fede.

Gesù insiste: «Ma voi, chi dite che io sia?» Noi che diciamo di lui? Non siamo più noi a interrogare lui, ma è lui che interroga noi. Siamo noi ad essere messi in discussione. La domanda è stringente ed esige la risposta giusta perché decisiva. O crediamo in lui e saremo pietre vive che andranno ad edificare la sua Chiesa, o saremo tagliati fuori dal futuro che Dio ha preparato per gli uomini alla fine dei tempi. Gesù avverte che la risposta è un dono di Dio, non deve essere umana. Va cercata nel silenzio e data dopo aver ascoltato lo Spirito.

Lasciamoci condurre dallo Spirito e capiremo che la vita di Gesù continua in noi. I nostri occhi si apriranno allo spezzare del pane e impareremo a riconoscerlo in ogni liturgia domenicale. Anche la nostra comunità potrà professare con Pietro in Spirito e verità: «tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

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ORDINARIO  22  A  2005

 

Il brano del vangelo oggi inizia così: da allora Gesù cominciò a mostrare ai suoi discepoli. Da allora, cioè a partire dalla confessione di Pietro che abbiamo ascoltato domenica scorsa, Gesù inizia una rivelazione nuova, la più importante e la più sconcertante. E’ un momento fondamentale per Gesù e i discepoli.

Gesù dice che Pietro è beato, perché la fede gli viene da una rivelazione del Padre. Niente di straordinario. Gesù stesso ha insegnato che conosce il Figlio solo colui a cui il Padre lo rivela. Tutti coloro che credono in Gesù lo fanno perché il Padre lo ha loro rivelato. La roccia sulla quale Gesù fonda la sua Chiesa, contro la quale gli inferi non prevarranno, è la fede che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, quello vivente.

La fede professata da Pietro è straordinaria. Gesù a questo punto può mostrare che è necessario per lui andare a Gerusalemme e soffrire molte cose dagli anziani e sommi sacerdoti e scribi ed essere ucciso e il terzo giorno risorgere. Gesù non lo dice solo ma lo mostra nei fatti: inizia il cammino verso Gerusalemme. E quello che rivela impegna tutti i suoi discepoli, che sono chiamati a rinnegare se stessi, a prendere la propria croce e a seguirlo. Per quale motivo: per salvare la vita bisogna perderla.

Questa rivelazione contiene sapienza umana. Sappiamo che la vita è come una candela che dà luce e riscalda consumandosi. Se non si consuma non illumina, cioè è inutile.

Questa rivelazione contiene sapienza divina. Gesù assicura che chi perde la sua vita per la causa del Regno la troverà. Chi crede che Gesù è il figlio del Dio vivente, dona la vita alla causa sua e vive per lui. Gesù vive per lui e lo farà partecipe della sua gloria.

Essere uniti in Cristo come tralci all’albero, o come la sposa allo sposo, significa divenire con lui un corpo solo e partecipare alla stessa sorte. E’ la vocazione del discepolo.

Come reagisce Pietro a questo annuncio? Seguiamo il testo greco che è diverso dalla traduzione ufficiale. Pietro prende Gesù con sé. Pietro cerca di convincere Gesù, fra loro due soli. E’ la correzione fraterna nel segreto, nella quale si può correggere o essere corretti, ma non c’è mai lo sconfessare l’altro alle sue spalle e quindi neppure l’essere sconfessati. Pietro rimprovera Gesù con molto tatto e rispetto: “Dio sia misericordioso con te, Signore. A te non sarà affatto così”. Pietro vorrebbe evitare a Gesù la passione e la morte. Anche qui, niente di grave. Chi di noi desidera la passione e la morte? Quante volte preghiamo per star bene e per non morire, per noi o per le persone care? Anche Gesù ha pregato il Padre di evitare la morte. Il problema è un altro per tutti: pensare le cose di Dio o degli uomini. Chi ha fede in Gesù figlio di Dio vivente pone la vita sul piano divino, che dà un altro esisto alla vita umana, quello della risurrezione e del regno dei cieli. Se ci poniamo su questo piano, pensare le cose degli uomini, come fa Pietro, diventa dividersi da Dio, che pensa altre cose di noi. Di qui il nome di Satana che Gesù dà a Pietro. Egli è di ostacolo al cammino che Gesù deve fare, come aveva detto.

Pietro deve a sua volta mettersi dietro a Gesù e non davanti a lui, farsi cioè discepolo.

Il desiderio di salute e di vita  noi possiamo coltivarlo se non impedisce il compiersi per noi e per il mondo di quello che pensa Dio. Gesù nell’orto ha aggiunto alla sua preghiera: “sia fatta, o Padre, la tua volontà”. Anche l’AT ha conosciuto questa fede.

Oggi abbiamo la confessione di Geremia profeta. Mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso. Ma poi la tua parola che annunziavo mi attirava persecuzione e sofferenza ogni giorno. Mi proponevo di non pensare più a te e di non parlare più in tuo nome, ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente che non potevo contenere. Pietro ha tentato di correggere Gesù, ma è rimasto con lui.

In fondo è questo importante in ogni discepolo: l’unità profonda con Gesù che non viene mai meno nonostante la debolezza, l’unità che è tipica di ogni grande amore. Si va dietro a Gesù fino perdere la vita per lui come si sta con la persona di cui si è innamorati.

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ORDINARIO  23  A  2005

 

La parola oggi ci educa all’amore del prossimo. S. Paolo scrive ai Romani che l’amore vicendevole è un debito. Il prossimo ne ha bisogno per vivere, come ha bisogno di aria e di acqua. Tutti i comandamenti possono essere detti così: ama il prossimo tuo e te stesso.

Dio infatti ha bisogno di questo per costruire il suo regno, che è giustizia, pace e gioia.

Geremia e Gesù insegnano a prendersi cura del prossimo quando sbaglia. Geremia dice che dobbiamo distogliere l’empio dal male in nome di Dio, cioè con la sua parola.

Se non lo facciamo, siamo responsabili della sua rovina. Anche Gesù insegna che la correzione fraterna mira a guadagnare il nostro fratello; non guadagnarlo è perderlo.

Oggi siamo lontani da questo insegnamento e quindi è un modo di amare molto difficile.

Nel nostro tempo il valore più stimato e rivendicato è la libertà. A ragione, perché non c’è amore e gioia senza libertà. Ma la libertà oggi è percepita come un diritto assoluto che non può essere disturbato neppure dai diritti degli altri, neppure degli innocenti. Pensiamo a: prepotenza dei poteri forti, intolleranza, divorzio, aborto e terrorismo, realtà molto diverse tra loro ma che hanno in comune la rivendicazione della propria libertà. Vediamo quanto è difficile anche per genitori, insegnanti, educatori e parroci correggere le persone verso cui hanno delle responsabilità; c’è sempre la possibilità che le persone si rivoltino contro, accusando, che si apra una causa civile o penale, o anche di morire.

Ultimamente siamo arrivati alla paura che una persona possa ribellarsi, uccidendosi.

Che fare in questa situazione difficile? Lasciar cadere la parola di Dio, lasciare che tutti facciano quello che vogliono? Tenersi alla larga da impegni sociali, scolastici, religiosi? La parola che abbiamo ascoltato è troppo chiara per non prenderla sul serio e le storie che la bibbia racconta altrettanto; pensiamo al Battista, a Gesù, agli apostoli, a Stefano e tanti santi, divenuti martiri per il coraggio con cui hanno detto la verità per salvare i fratelli.

Gesù dice anche ai discepoli che Dio ha affidato loro un potere di legare o di sciogliere che avrà continuità nel cielo. Sciogliere i fratelli dal laccio in cui sono imbrigliati, significa renderli liberi per il cielo, legarli con testimonianze contrarie al vangelo o per la nostra paura  a correggerli, significa anche ostacolare il loro cammino verso il cielo.

In particolare con la nostra santità salviamo i fratelli e con il nostro peccato li perdiamo.

Matteo indica anche il percorso ecclesiale per ricondurre il fratello all’amore di Dio.

E’ una correzione progressiva che rispetta la libertà ma aumenta la pressione  positiva. Riprendilo fra te e lui solo. E un modo perché la correzione non assuma i toni di un giudizio. Nel dialogo si può correggere ed essere corretti, riportare i fatti alla loro verità, dissolvere malintesi, constatare la non intenzionalità o responsabilità, offrire solidarietà.

Prendi con te uno o due fratelli come testimoni, più sereni ed imparziali. Evita di interpretare la questione in modo troppo personale e aumenta la forza di persuasione.

Dillo all’assemblea. E’ la comunità locale intera e quindi il popolo, il ministro e gli organi di partecipazione che la presiedono. L’assemblea è l’ultima possibilità offerta sia a chi corregge sia a chi viene corretto. Ultima a cui accedere e ultima che può salvare.

La comunità mette insieme più punti di vista e offre maggior garanzia di verità e carità.

Sia per te come il pagano e il pubblicano. Il pagano indica uno che non fa parte della Chiesa; ritenerlo come pagano significa quindi non mantenere legami, perché possono in qualche modo inquinare la verità e compromettere la testimonianza.

Il pubblicano indica invece il peccatore; ritenerlo tale significa amarlo con amore ancora più intenso, come faceva Gesù, conosciuto come amico dei pubblicani e dei peccatori.

Gesù termina esortando alla preghiera ecclesiale, il segreto per vivere le cose difficili.

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ORDINARIO  24  A  2005

 

Domenica scorsa la parola ci ha educato all’amore del prossimo, in particolare al grande amore di chi corregge il fratello che pecca. Oggi ci educa a perdonare il fratello.

Gesù insegna che il perdono deve essere generoso, o senza misura, e provenire dal cuore.

Racconta la parabola che abbiamo ascoltato. Sappiamo che le parabole parlano a due livelli: quello del racconto umano, facile da capire, e quello del mistero che il racconto vuole rivelare. Quest’ultimo è solo lo Spirito che lo rivela. Bisogna chiedere di capire.

Nei regni del mondo antico e dell’impero romano vigeva questa prassi giuridica: chi non poteva pagare i debiti doveva risarcire il creditore vendendo i suoi beni, e se non bastavano, vendendo se stesso e i propri familiari come schiavi.

Era un sistema per sollecitare il creditore a fare ogni sforzo per saldare il dovuto.

La parabola parla di uno schiavo mettendo in risalto che è una persona distante dal re.

Il re aveva diritto di vita e di morte su di lui, mentre lo schiavo non aveva diritti sul re.

Il re fa applicare la legge. Lo schiavo lo supplica e il re prova compassione di lui, lo ama e gli condona il debito. Così lo schiavo ha salva la vita, la famiglia e i  beni.

In questa prima scena risalta la generosità del re. Egli prova compassione per uno schiavo, rinuncia a una somma ingente, perché non dilaziona il debito ma lo estingue.

Lo schiavo diventa protagonista della seconda scena raccontata nella parabola.

Egli trova uno di coloro che erano come lui schiavi del re e che ha un debito con lui.

Egli verso di lui applica la legge, lo getta in carcere, nonostante che fosse pari a lui in dignità e che si trattasse di un debito molto più piccolo. Agisce in modo ingiusto?

Non è ingiusto perché non viola la legge in vigore. Anche il re in un primo momento aveva agito così con lui. Il conservo però lo aveva supplicato come egli aveva supplicato il re. C’è una novità: la confessione umile che il debitore fa ottiene la misericordia. 

Il re aveva stabilito un comportamento nuovo rispetto alla legge rivelando così che il suo regno era diverso dagli altri. La legge era diversa e lo schiavo era tenuto ad imitare il re.

L’insegnamento della parabola è questo. Il regno di Dio si regola sul comportamento di Dio e non secondo le leggi umane, siano esse giuste o sbagliate. 

La giustizia del regno domanda che tutto vada secondo l’amore di Dio che perdona.

Il  servo non si era accorto che la legge del regno era la compassione. Anche noi possiamo perdonare senza che il perdono sia un’esperienza di amore e di confessione.

Se ci lasciamo prendere da questo amore ne veniamo trasformati e diventiamo capaci di accogliere e amare come siamo stati accolti e amati da lui. Alla base del perdono non sta l’esame di coscienza o il pentimento ma l’esperienza di essere stati perdonati per primi.

Il perdono va liberato da ogni complesso di colpa o nevrosi, angoscia o tormento.

Il Signore con il fango della nostra vita può fare i mattoni per costruire un edificio nuovo.  Chi non accetta il perdono, non può partecipare al Regno, che è fondato su questo amore santo, forte e generoso. Si comporta secondo la legge umana e sarà trattato secondo la legge umana e quindi escluso. E’ possibile vivere oggi secondo l’uomo e vivere domani secondo Dio? Guardiamo a come si comporta Dio nella storia della salvezza. Gesù, dopo aver subito la persecuzione, il processo e la passione, poco prima di morire crocifisso prega il Padre: perdona loro  perché non sanno quello che fanno.

Sappiamo che Gesù fa quello che vede fare dal Padre. Dunque egli perdona come perdona il Padre e noi dobbiamo fare lo stesso.

Siamo capaci di perdonare come Dio perdona in qualsiasi situazione della vita?

Oggi il non perdonare non è considerato e confessato come peccato e il perdonare non è sentito come grazia e dono. E’ probabile che predichiamo poco o male il perdono ed anche che non siamo abbastanza umili da desiderare di essere come Dio. Chiediamo allo Spirito di aiutarci a confessare il nostro bisogno, a perdonare e ad amare come lui.

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ORDINARIO  25  A  2005

 

I miei pensieri, dice Dio, non sono i vostri pensieri, anzi li sovrastano quanto il cielo sovrasta la terra. La parabola degli operai chiamati a lavorare la vigna lo dimostra.

Sono operai che lavorano a giornata e accettano qualsiasi offerta di lavoro per vivere e mantenere la famiglia. Il padrone di casa li chiama a quattro ore diverse e dà loro la stessa paga, quella concordata quando il padrone uscì a cercarli, insieme al mattino. Egli adotta questo criterio: la paga corrisponde al bisogno di vita prima che al lavoro svolto.

Ci è stato più fortunato? I primi operai, quelli che avevano sopportato il peso della giornata e il caldo mormorano contro il padrone. In realtà la vera sofferenza è di coloro che attendono tutta la giornata con la paura di non portare a casa il necessario per vivere.

E’ fortunato chi ha il lavoro sicuro, non chi è disoccupato. Un commediografo francese ha scritto questo racconto. “Attorno a S. Pietro c’era ressa di gente in attesa del giudizio di Dio. Si sparge la voce di un perdono generale, un’amnistia. Coloro che avevano fatto tanti sacrifici per guadagnarsi il paradiso dicevano: “Se avessimo saputo prima avremmo potuto divertirci anche noi come loro”. E’ la teoria dei meriti. Faccio sacrifici ed opere buone per mettere via dei meriti e guadagnarmi un posto alto in paradiso.

Il paradiso è creato dall’amore e goduto da chi ama, non da chi ha una religione gretta, nella quale Dio è colui che premia o castiga e non è il Dio dell’amore.

La parabola che chiamavamo del “figlio prodigo” metteva al centro il peccato del figlio minore che mettendosi in proprio aveva fallito mentre il maggiore era rimasto in casa a lavorare, anche se non disponeva neanche di un capretto per far festa con gli amici.

Era una lettura interessata a mantenere la giustizia secondo i criteri umani.

In realtà la parabola parla del grande amore di Dio per tutti i suoi figli e rivela che Dio gode l’abbraccio dei peccatori che ritornano e soffre del rifiuto dei figli casalinghi.

Diceva un educatore: “Essere cristiani è un’avventura bella; se non ne siete convinti andate nel mondo e divertitevi, se vi sarà possibile essere contenti senza il vangelo”.

I genitori fanno fatiche innumerevoli per crescere i figli e hanno anche timore, perché li vedono crescere in un mondo che ha poco rispetto per loro, ma sono contenti, perché è sempre bello essere fecondi e crescere una vita dalla propria vita.

Partecipano alla gioia di Dio che non si è ancora stancato del matrimonio, della famiglia e del mondo. Un sacerdote ripeteva: “Se, per assurdo, alcuni minuti prima di morire mi dicessero che il vangelo era tutta una favola, non avrei nessun rimpianto per quello che ho vissuto. La mia vita è stata bella, non poteva essere più bella”. E’ una fortuna essere cristiani dal primo giorno della vita, esserlo da ragazzo e da giovane, lavorare nella missione con gli altri con generosità e con gioia, avere davanti gli orizzonti del vangelo.

La parola oggi ci invita tutti ad un esame di coscienza, soprattutto coloro che sono caduti nella religione civile, di chi sta con un piede dentro e uno fuori, per esigere i diritti e negare i doveri. Oggi concludiamo il ritiro in apertura del nuovo anno pastorale.

Viene offerta a tutti una opportunità nuova. Poniamoci queste semplici domande:

Pensiamo secondo Dio o secondo gli uomini? Accettiamo che la parrocchia è fatta di persone chiamate e amate dal Signore ma che restano tutte piccole e peccatrici?

Ci muoviamo vedendo che la parrocchia fa fatica a fare quello che il Signore vuole?

Ci facciamo vedere solo per ricevere o anche per dare? Sappiamo che il vangelo è bella notizia: perché non lo sposiamo decisi e gioiosi se è bello? Cominciamo dalla preghiera in questa eucaristia e dal renderci conto dei problemi e decidere insieme la pastorale.

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0RDINARIO  26  A  2005

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La parabola che abbiamo ascoltato è semplice. Impegnativo è applicarla bene alla vita.

Gesù è nel tempio e sta insegnando. Racconta una parabola in risposta a una domanda dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo, l’autorità religiosa ufficiale. Un uomo ha due figli e li manda a lavorare nella vigna. Uno risponde: Non voglio! In seguito si pente e và. L’altro risponde: Io vado, Signore. Ma non và. Gesù interpella coloro che lo ascoltano: Chi dei due ha fatto la volontà del padre? Lasciamoci interpellare anche noi.

Rispondere no al padre nel mondo antico era molto grave. Significava mettere in discussione l’autorità paterna su cui poggiava la vita familiare e sociale. Da qui nasce la decisione del figlio, che prima aveva disobbedito al Padre, di andare a lavorare la vigna.

E’ sempre sbagliato rispondere no a Dio. Ma la storia della Chiesa è piena di persone convertite; che avevano detto no e poi si sono dedicate con generosità al regno di Dio, che sono diventate sante e hanno resistito, anche nelle persecuzioni, fino al martirio.

L’altro figlio invece mostra di riconoscere e riverire il padre. Infatti lo chiama Signore e gli dice prontamente: Io vado! Però riconosce l’autorità del Padre a parole, ossequiente alla mentalità del suo tempo ma non va a lavorare la vigna del Padre.

Anch’egli avrà buona compagnia nella storia della Chiesa. Già Gesù insegnava: “Non chi mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del padre mio, quello dei cieli” (7,21). La religiosità che si ferma alle parole può avere sfumature diverse. C’è la religiosità devozionale e sentimentale che non entra nelle lotte della vita, c’è quella che esprime belle celebrazioni, momenti di comunione ed anche propositi convinti ma che non esce dalla porte della chiesa. C’è anche la religiosità che scambia la teologia con la mentalità del tempo o la missione con l’onore e la carriera, senza preoccuparsi se vive il vangelo o se sta percorrendo le strade che portano ad affermare se stessa.

Quante volte i cristiani, chiusi nelle loro sicurezze, hanno ostacolato la libertà umana e la giustizia di Dio, solo perché chi le proponeva non era della cerchia cristiana ossequiente.

Compiere la volontà di Dio non significa essere ossequienti agli uomini, per essere onorati da loro, ma affermare nella vita le cose che Dio ci ha rivelato, quando le ha fatte vivere nel nostro cuore e ce ne ha dato prova sicura nella nostra storia personale con lui.

Arriva il momento nella vita in cui dobbiamo decidere se è importante Dio o se siamo importanti noi e le nostre ragioni. La parabola raccomanda innanzi tutto la coerenza fra confessare la fede e compiere la volontà del Padre. I pubblicani e le prostitute hanno creduto al Battista, che era venuto nella via della giustizia, e precedono i sacerdoti e gli anziani di Israele nel regno dei cieli, cioè danno testimonianza a Dio convertendosi.

Il cristiano che non è disposto a modificare le proprie convinzioni davanti alla parola profetica che annuncia la giustizia di Dio, che è sempre retta, non è degno della salvezza. 

Bisogna riconoscere i propri limiti e, a mano a mano che il Signore ci rivela quello che non sapevamo del suo regno, rivestirci di esso. Paolo scrive che  Gesù non ha ritenuto la sua uguaglianza con Dio come un tesoro da conservare gelosamente, per non perderlo, ma se ne è spogliato e lo ha speso, per fare nella vita terrena e nella risurrezione la giustizia del Padre. Che dire dei cristiani che hanno già fissi i canoni di fedeltà in cui rispecchiarsi e non lasciano spazio a quello che Dio vuole ancora inventare per il futuro?

Il profeta Ezechiele afferma che chi desiste dall’ingiustizia e agisce con giustizia fa vivere se stesso. E’ un invito a riconoscere i nostri limiti per convertirci continuamente al disegno di Dio, a passare dal dire al fare, dal cercare gratificazioni al dare la vita per Dio.

All’inizio dell’anno pastorale il Signore ci invita a giocarci con lui e con il suo regno.

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ORDINARIO  28  A  2005

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I cristiani con l’iniziazione entrano nel regno di Dio. Che cos’è il regno di Dio?

Gesù lo presenta con delle parabole, similitudini che forniscono tracce per una ricerca che continua tutta la vita. Un re fa un banchetto di nozze per il suo figlio. l’AT presenta l’alleanza come le nozze tra Dio e il suo popolo. Dio, scrive Isaia, prepara un banchetto sul monte con cibi e vino raffinati. E’ un banchetto di festa, perché gli uomini sono liberati da dolore, vergogna e morte per sempre. E chi partecipa al banchetto canta: Ecco il nostro Dio in cui abbiamo sperato! Rallegriamoci ed esultiamo per la salvezza.

Giovanni inizia il suo vangelo con la festa di nozze di Cana di Galilea, dove presenta Gesù come lo sposo che garantisce la festa nuziale piena. Quello che l’AT preannunciava si compie nel NT. Dio è sposo del suo popolo nel mistero di Gesù e della Chiesa.

Nella festa per un matrimonio umano Gesù manifesta la sua gloria di sposo della Chiesa e i suoi discepoli credono in lui; credono cioè che egli è lo sposo ed essi la sposa.

La rivelazione termina con una visione descritta nell’Apocalisse: Gerusalemme scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E lo Spirito e la sposa dicono: Vieni, Signore Gesù! Siamo già nel regno di Dio e l’eucaristia è il banchetto delle nozze fra Gesù e la Chiesa, anche se avviene ancora nella fede e nel sacramento.

E’ naturale domandarci: consideriamo il nostro essere cristiani come festa di nozze e l’eucaristia come anticipazione e primizia del banchetto gioioso della salvezza?

La fine della nostra storia sarà una tomba o una foto e per di più provvisorie anch’esse?

La parabola descrive due scene antitetiche: nella prima Dio manda i suoi servi a chiamare gli invitati a nozze che però non vogliono partecipare per curare il lavoro e i propri affari. Ci sono poi anche coloro che perseguitano e uccidono gli inviati. Non dimentichiamo i martiri cristiani. Nel secolo scorso sono stati circa 400 milioni. Ci interessiamo a benessere, cultura e ricchezza e non prendiamo tempo per sognare e per cercare le altezze e le profondità che Dio ha posto nella vita. Non mancano anche oggi genitori che manifestano sorpresa quando i figli sono entro i giri della droga e cose simili. Credevano di aver dato tutto quando assicuravano soldi, benessere e libertà e non hanno saputo appassionarli ai valori e ai sensi alti e profondi che Dio ha nascosto nel campo della vita. Se essi non interessano più ma vengono marginati e derisi non ci resta che la terra.

Nella seconda scena Dio manda per le strade a chiamare quanti vi si trovano, gente che non hanno affari da curare e benessere da cercare e che riempiono la sala del banchetto. Ma anche a loro è chiesto qualcosa per partecipare: la veste appropriata. Qual’è?

In Ap 19,8 si legge: Rallegriamoci e diamo gloria a Dio, perché sono giunte le nozze dell’agnello e la sua sposa ha preparato se stessa; le fu data un aveste di lino puro splendente; e la veste di lino sono le opere giuste dei santi.

Dio non chiama solo ma fornisce anche la veste adatta. La parola di Dio che invita suscita la fede e la conversione. La grazia di Dio e l’obbedienza dell’uomo alla vocazione operano la trasformazione che rende partecipi alla festa nella libertà e nella gioia.

La chiamata comprende il dono della veste ma chiede di accoglierla e indossarla.

Il banchetto è sempre “nozze”, momento di un’alleanza e di festa e richiede la libertà e l’amore di chi vi partecipa. La festa non è mai regalata, chiede sempre partecipazione.

Siamo all’inizio di un anno pastorale. Non si vede gran movimento di adulti.

La parola di Dio è per noi oggi. Davvero siamo in ricerca di Dio e della salvezza?

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ORDINARIO  29  A  2005

 

Abbiamo iniziato l’anno pastorale: il ritiro, il catechismo per bambini e ragazzi, la catechesi e il primo annuncio per adulti e terza età e l’attività dei gruppi. Questa settimana faremo le iscrizioni al catechismo, con l’incontro tra i genitori e i catechisti.

Oggi commento la seconda lettura, l’inizio della prima lettera di Paolo alla comunità cristiana di Tessalonica, la capitale della Macedonia. In essa c’era una sinagoga dei Giudei e Paolo vi aveva annunciato Gesù Cristo nell’estate del 50. Alcuni giudei, un buon numero di greci e di donne della nobiltà aderirono al vangelo. Ma altri giudei, ingelositi, accusarono Paolo presso i giudici di fare politica e in particolare di presentare Gesù come un re antagonista a Cesare. La pagina evangelica odierna testimonia quanto era pericoloso, anche ai tempi di Gesù, parlare di religione e politica. Chiesa e stato.

Gesù non voleva il titolo di re. Gli verrà dato sulla croce, quando non aveva più una valenza politica. Paolo deve fuggire di notte da Tessalonica e circa tre mesi dopo, quando si trova a Corinto, scrive a questa comunità la sua prima lettera. E’ pericoloso soprattutto per la contestazione. Cosa diventerà l’autorità quando non dialoga?

Non posso ora farvene una presentazione adeguata ma mi soffermo su alcune cose che sono valide sempre, anche per noi che, all’inizio di un nuovo anno pastorale, abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza e l’importanza di essere una comunità cristiana.

Rendiamo grazie a Dio, sempre, a motivo di tutti voi. E’ il primo sentimento che Paolo manifesta e deve essere il sentire primario di una comunità cristiana. La relazione che lega i cristiani tra loro è dono di Dio. Sentiamo il bisogno di ringraziarlo di averci chiamati a vivere in questa comunità cristiana. A motivo di tutti voi, scrive Paolo, senza distinzioni fra persone, nelle cose belle che godiamo e nelle prove che sopportiamo.

Se è viva la riconoscenza a Dio, non ci fermiamo di fronte alle difficoltà, alle fatiche, alle incomprensioni o ai contrasti che la vita comunitaria comporta. Se non siamo attivi nella comunità significa che non sentiamo che il farvi parte è comunque un dono del Signore.

Ricordiamo voi, l’opera della fede, la fatica della carità e la pazienza della speranza.

Nella vita della comunità cristiana sono in azione le tre virtù teologali.

Paolo presenta, di ognuna, una qualità legata alle condizioni difficili della testimonianza.

L’opera della fede. La fede è un opus, un’opera da costruire, una fatica da portare, una missione da svolgere, un cammino che impegna. La fede non è un modo di pensare, una ideologia, una filosofia che ispira la vita ma nello stesso tempo che è fuori di essa.

E’ accettazione nei fatti della redenzione di Gesù Cristo e dell’opera dello Spirito.

Fede è riconoscere il Crocifisso-Risorto e imitare queste due dimensioni di vita.

Il modo con cui partecipiamo o non alla vita della comunità manifesta il tipo di fede che professiamo: è quella operosa di Paolo o quella gratificante che si cerca oggi?

La fatica dell’amore. Oggi appare con evidenza che amare è faticoso. Esempi sono le divisioni nella famiglia, le ingiustizie, le nuove forme di schiavitù e di violenza.

Nella comunità serve l’amore generoso, descritto da Paolo in 1Cor 13: La carità non è invidiosa, non si vanta, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. E’ l’amore che occorre quando le prove si fanno più forti.

La pazienza della speranza. Per Paolo la speranza nasce dalle tribolazioni sopportate. Noi ci gloriamo nelle tribolazioni perché in esse si matura la speranza che non delude.

Il vangelo è annunciato a parole e con la testimonianza e con la potenza dello Spirito.

Nell’eucaristia confrontiamoci seriamente con questa parola del Signore.

Abbiamo una vita cristiana viva e la testimoniamo? Ci fidiamo di ciò che compie nella comunità lo Spirito, potenza di Dio nella nostra debolezza? L’inizio del nuovo anno pastorale è l’occasione per un impegno nuovo.

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ORDINARIO  31  A   2005

 

Gesù sta parlando alle folle e ai discepoli e quindi a tutti. Parla degli scribi e dei farisei. Malachia nella prima lettura parla dei sacerdoti e Paolo nella seconda  parla di se stesso.

Queste persone oggi le chiamiamo ministri ordinati: papa-vescovi-presbiteri-diaconi, ed anche operatori pastorali. E’una predica per loro e per tutte le persone che sono in relazione con il loro ministero. Scribi e farisei siedono sulla cattedra di Mosé.

Gli operatori pastorali cristiani siedono sulla cattedra di Gesù, trasmettono la sua parola..

E’ una  vocazione e una missione, una grande dignità,  ma anche una responsabilità.

Come devono esercitare il loro ministero e i fedeli come devono accoglierlo?

Sono all’altezza del compito? Alcuni sì, altri no. Paolo è stato all’altezza della vocazione.

Egli scrive ai cristiani di Tessalonica che ha sempre desiderato partecipare a loro con il vangelo anche la sua stessa anima, perché li ama. Predicare il vangelo senza gravare su nessuno richiede fatica, sforzo e dedizione continua. Ci siamo comportati in maniera pura, giusta ed irreprensibile con voi credenti, come una madre cura e riscalda i suoi figli e un padre esorta, incoraggia, scongiura a camminare in maniera degna di Dio.

E i cristiani di Tessalonica hanno accolto la parola di Paolo come vera parola di Dio.

Quando il ministro non mette in luce se stesso ma lascia trasparire Dio allora il Cristo viene riconosciuto dai fedeli per quello che è realmente e viene accolto.

Non sono cose evidenti agli uomini, perché il ministro può anche essere rifiutato e perseguitato a causa della parola che annuncia. Paolo stesso ha dovuto fuggire da Tessalonica, ma il dono della parola e dell’anima e il martirio hanno portato molto frutto.

Il profeta Malachia dice dei sacerdoti: voi siete stati di inciampo a molti con il vostro insegnamento, avete usato parzialità di fronte alla Parola, avete profanato l’alleanza.

I singoli ministri possono insegnare cose fuorvianti. Ricordo che quando ero responsabile della pastorale sociale e del lavoro della diocesi, in una parrocchia alcuni operai avevano diffuso un volantino in cui era scritto che nel vangelo usato dal loro parroco mancavano alcune pagine, perché non parlava di giustizia e di solidarietà con i poveri e i deboli.

Quanti ministri diffondono la dottrina sociale della Chiesa e quanti invece tacciono o affermano cose che sono in contrasto con il vangelo? Manca la parola su questi temi.

Gesù in questa pagina denuncia alcuni comportamenti falsi dei ministri della pastorale.

- Dire e non fare; legare carichi pesanti e difficili da portare, imporli sulle spalle degli altri e non toccarli noi. Il ministro deve annunciare il vangelo, anche quello che egli non è capace di vivere, perché il popolo ha diritto del pane per il suo cammino, ma deve sentirsi interpellato per primo dalla parola e a disagio quando non è coerente con essa.

Gesù dice che il cristiano deve tendere alla perfezione, e Paolo scrive che deve raggiungere la piena maturità di Cristo. Chi non predica un vangelo esigente non predica il vangelo. Occorre indicare chiaramente la meta, che è sempre alta e lontana rispetto alla nostra vita, ma che deve prendere l’anima, innamorare e incantare. Poi è chiesto di mettersi in cammino verso la meta usando misericordia verso chi è debole e sostenendo chi viene meno e avendo pazienza anche con noi stessi.

- Apparire agli uomini, amare la prima sedia nel civile e nel religioso, i saluti nelle piazze, in pubblico, ed essere chiamati dagli uomini con nomi che attribuiscono onore.

Gesù ne indica tre legati al ministero, degenerazioni della missione a cui si dedicano. Maestro è solo Cristo; il ministro è fratello nella fede, soggetto alla parola che annuncia.

Padre è solo quello celeste; il cristiano vi partecipa in quanto manifesta la sua paternità.

Guida è solo il Cristo; il ministro lo è come strumento, nel quale si manifesta Cristo.

Infine la regola d’oro: il più grande di voi sarà il servo di voi. E’ la misura di grandezza.

Nella Chiesa tornano in voga titoli di onore gratuiti e non legati al ministero ma all’ambizione umana. Gesù insegna: Tra di voi non sia così. Né i ministri né i fedeli possono accettare o usare questi titoli. I discepoli vivono per la gloria del Signore e per partecipare alla sua gloria.

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TUTTI  I  SANTI  2005

 

La liturgia oggi ci presenta tutti i santi, in particolare il popolo di Dio del paradiso.

L’Apocalisse aiuta a conoscere la vita eterna partendo dalla parola di Dio. Oggi abbiamo una pagina della prima lettera di Giovanni e una di Mt. Ma tutta la Parola è escatologica.

1 Un angelo ha in mano il sigillo del Dio vivente e lo imprime sulla fronte dei servi di Dio, prima della fine del mondo. Che cosa significa quel sigillo? Giovanni scrive che non è ancora rivelato quello che saremo in paradiso ma che, fin d’ora, siamo figli di Dio. L’essere figli è segno del grande amore di Dio per noi e sigillo di chi è nel popolo di Dio. La Chiesa è luce e lievito, per camminare verso la meta e trasformare la vita in paradiso.

2 Appare una moltitudine immensa di ogni popolo e lingua. Sono avvolti in stole candide, portano in mano la palma della vittoria e, insieme agli angeli e agli esseri viventi, cantano un cantico di lode a Dio. La vita dei santi in paradiso è innanzi tutto contemplazione e da essa nasce la preghiera di lode. Il paradiso è il vedere la realtà in modo diverso: tutto è nato, redento e santificato da Dio; tutto è molto bello, perché le cose negative non ci sono più; tutto è segno della sapienza e potenza di Dio e noi godremo della vita rendendo grazie a lui e amando noi stessi, l’umanità redenta e la creazione, come cose belle che riempiono di senso e di gioia la vita. Chiunque ha questa speranza purifica se stesso per divenire puro come Dio, per diventare perfetto come il Padre e per raggiungere la piena maturità come la ha raggiunta Cristo.

3  Chi sono i santi? Coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro stole nel sangue dell’agnello. Le beatitudini danno consolazione.

Partendo dalle esigenze di figli di Dio in questo mondo arriviamo a conoscere il paradiso.

L’esistenza terrena di Gesù, di Maria e dei santi è stata seme dell’esistenza celeste.

Gesù si riferisce all’esistenza dei discepoli, quelli che prendono la croce e lo seguono.

Le beatitudini indicano situazioni vuote, ma belle, perché Dio le riempie di paradiso.

Elenchiamo meditando queste esperienze cristiane per riconoscerle e valorizzarle.

La povertà è beatitudine quando Dio la riempie non con le cose ma con il regno dei cieli.

Quante energie spendiamo per procurarci le cose, quante per vivere le cose di Dio?

L’afflizione è beatitudine quando incontra la consolazione. Non è bene che l’uomo sia solo: gli faccio un aiuto che gli sia simile. La vita è passaggio dalla solitudine alla compagnia e apertura dalla dimensione personale a quella comunitaria.

Quanto valorizziamo la comunione ecclesiale come vita di famiglia, la famiglia di Dio?

La mitezza è un bene quando eredita ciò che manca nella violenza: la bellezza della vita.

Impariamo da Gesù ad essere miti ed umili di cuore, per ereditare la terra di Dio?

La mancanza di giustizia umana è beatitudine quando viene saziata dalla giustizia di Dio.

Sappiamo reagire all’ingiustizia umana creando l’aspettativa della signoria di Dio?

La misericordia verso gli altri è beatitudine perché guadagna la misericordia di Dio.

Impariamo il perdono donandolo, chiedendolo, valorizzandolo come medicina della vita?

La castità è beatitudine perché sarà riempita da nuove relazioni rese possibili da Dio.

Superiamole relazioni fusionali per vivere le relazioni vaste e profonde della vita? 

Operare la pace è beatitudine perché ci farà figli simili al Padre, che è il dio della pace.

Siamo generosi portatori di pace ovunque essa è venuta meno o può crescere di più?

La persecuzione per la causa di Dio è beatitudine perché realizza il Regno che crediamo.

Soffriamo volentieri per la causa di Gesù  per partecipare della sua ricompensa?

La festa dei santi ci collega naturalmente con i nostri defunti che partecipano o attendono il paradiso e con tutti i credenti ancora in vita che sono stimolati a raggiungere la santità.

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ORDINARIO  32  A  2005

 

Gesù racconta una parabola prendendo spunto dalla celebrazione di un matrimonio.

Mt, come Gv nel racconto di matrimonio di Cana di Galilea, allude a usanze del suo tempo, note agli ascoltatori, per parlare in realtà del matrimonio fra Gesù e la Chiesa.

Lo sposo è annunciato da una voce che grida: “ecco lo sposo, andategli incontro”.

Il grido è rivolto a persone vergini che attendono lo sposo, per entrare con lui nelle nozze. Sono la fidanzata dello sposo. La descrizione è volutamente carente e noi siamo chiamati a personalizzarla, perché Gesù non intende parlare di un matrimonio del suo tempo ma dell’alleanza sua e nostra. Ecco alcuni elementi da meditare.

1 Dio fa un banchetto di nozze per il suo figlio ed invita l’umanità a essere la sposa.

Qui sulla terra è ancora fidanzata e Gesù viene ad incontrala a mezzanotte per entrare insieme nelle nozze. Dio ci ha amato quando eravamo ancora peccatori. Quando il creato è avvolto nelle tenebre simbolo del peccato la luce viene a vincerle. Quando questo mondo finisce nasce il nuovo mondo. Il grido è di uno più grande dello sposo, che sa presentarlo; è la parola e la volontà di Dio che annuncia un nuovo evento per Dio e l’umanità. La fidanzata entra nelle nozze portando la sua luce, la sua identità di sposa, perché il matrimonio sia festa, assenza di peccato/tenebre e pienezza di amore/luce.

2 Le vergini prendono le lampade e olio nei vasi. Occorre anche la riserva d’olio.

Nella vita ci sono i tempi difficili e le notti oscure in cui domina il lato doloroso, oscuro, frantumato e mortale dell’esistenza cristiana. C’è sempre un lato notturno anche nell’esperienza cristiana, un tempo in cui la fede nelle cose di Dio si affievolisce, la preghiera diventa un peso, il dubbio toglie luce alle cose che prima apparivano belle, la carne vince lo spirito. Tutte le cose umane sono soggette a cambiamenti radicali.

In queste difficoltà solo la riserva di amore che la sposa ha con sé può darle la forza di accompagnare lo sposo alle nozze. L’amore è come la Sapienza di cui parla la prima lettura. Ci alziamo di buon mattino, la troviamo seduta alla sua porta, la contempliamo e camminiamo con lei nella giornata. Bisogna ogni mattina disporre della sapienza, della riserva di amore per la giornata. La preghiera del mattino è importante.

Le vergini stolte dicono alle prudenti: “dateci del vostro olio”. L’amore non si può chiedere in prestito o in regalo, non si può prestare o regalare, né comprare o vendere.

Ognuno deve fare il suo cammino di fede: ascoltare la parola di Gesù,  vivere in comunione con lui, coinvolgerlo nelle relazioni della vita per viverle insieme nell’amore.

Il tempo del fidanzamento ci è dato per imparare l’amore che sostiene tutta la vita.

Ogni persona ha la sua capacità e la sua riserva di amore; ognuno è chiamato ad accogliere lo Spirito, l’amore divino che viene donato nella vita ecclesiale, l’amore forte e generoso che niente può travolgere e che può accompagnare sposa e sposo nelle nozze. Le persone che ci stanno accanto cii indicano il cammino, ci possono essere di esempio e di aiuto ma solo l’amore divino  diventa la mia forza che garantisce la riuscita.

4 Vigilate, perché non sapete né il giorno né l’ora. L’anno liturgico che volge al termine e l’Avvento che si avvicina ci invitano alla vigilanza. La vita cristiana va vissuta nell’attesa dell’incontro con Cristo. Il rito ambrosiano prevede sei settimane di avvento per sviluppare meglio l’attesa. L’undici settembre l’America e l’occidente si sono svegliati di fronte ad un’iniziativa imprevista del mondo mussulmano, hanno reagito spinti dalla paura e hanno deciso la guerra ed alimentato i mali dell’umanità. La vigilanza del cristiano non si alimenta nella paura ma nella speranza. Dio crea cose nuove insieme con l’uomo che confida in lui. Sono visibili nella fede e godibili nella grazia.

La vigilanza cristiana è attesa del Signore che rende possibile un futuro nuovo per l’umanità, nella mezzanotte del tempo, quando Dio vince le tenebre e crea il nuovo.

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ORDINARIO  33  A  2005

 

Abbiamo un’altra parabola sulla Chiesa che attende di accogliere il Signore che viene.

Gesù è partito per un viaggio, è salito al cielo, e prima ha lasciato alla Chiesa i suoi beni: la parola di Dio, i sacramenti, lo Spirito che unifica nella Chiesa l’umanità dispersa.

Gesù ci ha affidato la missione di valorizzare i suoi beni. Abbiamo due possibilità.

- attesa fiduciosa. Porta a investire i beni che Gesù ci ha lasciato per salvarci e salvare

- attesa paurosa: Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, e mi sono nascosto.

Alcuni cristiani hanno paura - di essere evangelizzati: meglio l’ignoranza; non obbliga.

- di essere santificati: meglio l’umano che si vede al divino che si crede.

- di fare comunità: meglio la famiglia, il gruppo di volontariato, dello sport e degli amici.

La paura porta a nascondere i doni per non rischiare di perderli ma comporta il tradimento delle attese di Gesù, che ci ha lasciato i suoi beni per la salvezza degli uomini.

Quando Gesù era vincente Pietro era sempre in primo piano. Quando diventa perdente, nella passione, Pietro si rifugia nel dire: io non sono dei suoi, io non lo conosco.

Quando la religione era vincente nell’economia, nella politica, nella società e nella parrocchia, tutti si dicevano cristiani ed i furbi occupavano i primi posti. Coraggiosi e perseguitati erano i non praticanti. Oggi Cristo è perdente e in minoranza, come al tempo dei martiri, e non garantisce privilegi umani ai discepoli. Molti non accettano che sia così e si comportano come prima. Nasce la religione civile: sono battezzato, non credo ma difendo i diritti della Chiesa, che fanno parte delle nostre tradizioni e della nostra cultura.

Il natale, la befana, le feste dei santi perché non celebrarle? Il crocifisso, perché toglierlo?

Credi quello che vuoi e vivi come vuoi ma conserva la religione perché rappresenta qualcosa di civilmente importante. Ma questa non è la religione di Gesù, non valorizza  i  beni che egli ci ha affidato. Cosa fare quando scopriamo di aver tradito i beni di Gesù?

Il vangelo parla di due atteggiamenti: il pianto di Pietro segna la sua conversione, che lo riporta a valorizzare i beni di Gesù. La disperazione di Giuda segna il fallimento della falsa speranza che Gesù si sarebbe salvato, che ci salva qualunque cosa facciamo. 

Ma il Risorto sta lontano molto tempo e non ci difende anche se siamo nella sua verità, ci lascia nel dubbio, perché maturiamo la fede, e nelle persecuzione, perché maturiamo scelte convinte e convincenti. Ci vuole corresponsabili e compartecipi al lavoro e ai frutti: prendi parte alla sequela e alla gioia del tuo padrone. Questo è amore autentico.

Tradire i doni di Gesù invece è tradire il Risorto. Applichiamolo a due eventi importanti.

Oggi diamo il mandato ai catechisti. E’ un evento che mette in luce le cose seguenti:

- i catechisti sono mandati da Dio attraverso la comunità cristiana, svolgono la missione della Chiesa, godono della luce e della grazia dello Spirito santo.

- i genitori sono i primi catechisti dei figli, in virtù dell’iniziazione e del matrimonio.

I figli crescendo completano la formazione con i loro compagni, nella famiglia di Gesù.

- il catechismo va unito agli altri percorsi della vita cristiana, in particolare l’eucaristia e la comunione ecclesiale, da ricercare nei modi e negli spazi che la comunità propone.

- la parrocchia torna  ad essere il luogo privilegiato della pastorale.

Significa che i cristiani non sono pendolari ma hanno una parrocchia sola di riferimento.

- la preghiera della comunità accompagna l’opera educativa di tutti i fedeli.

Se le cose non funzionano tutti devono domandarsi: ho pregato abbastanza per comunità?

L’elezione del Consiglio pastorale. Nella catechesi e nei gruppi stiamo meditando le parole chiave del mistero della Chiesa: comunione, corresponsabilità, crescita, missione.

Chi non partecipa e non si informa non ha scuse davanti al Signore. - Scheda di adesione.

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GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO  A  2005

 

Oggi, ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo re.

Richiama l’attenzione sul legame fra l’inizio del regno glorioso di Dio e la nostra vita.

Gesù ha annunciato il regno di Dio, lo ha seminato, fatto crescere e portato a fruttificare. Il regno è ora, dopo venti secoli di storia,  un albero grande e rigoglioso.

Non è visibile ai nostri occhi ma, come tutte le cose di Dio, lo misuriamo nella fede, nella grazia, nella gioia che infonde nei cuori e nel bene che porta nel mondo. La parola che abbiamo proclamata ci incoraggia a scommettere la nostra vita sulla sua riuscita. 

Gesù è re dell’universo, anche della realtà materiale, civile e storica. Ma non possiamo proclamarlo re a modo umano né rivendicare un regno cristiano qui, perché Gesù ha detto che il suo regno non è di questo mondo. La realtà terrena non è regno di Dio;  lo può diventare solo venendo trasformata. Ne consegue che la Chiesa non ha il compito di governare il mondo ma di annunciarne la trasformazione. I politici presumono di rispettare la religione ma quando i piccoli e i poveri fanno le spese della politica significa che chi governa è lontano dal vangelo. La Chiesa non può ridursi ad amministrare la carità dei ricchi ma deve proclamare e favorire i diritti di tutti. Sono proprio gli emarginati e gli sfruttati dalla economia, dalla politica, e talora dalla Chiesa stessa, gli eletti del Regno.

Occorre dunque praticare le opere di misericordia ricordate da Gesù nel vangelo di oggi.

Fame, sete, immigrazione, nudità, malattia e carcere sono disagi veri di tante persone.

Ma ce ne sono altri ugualmente gravi. La mancanza di un’educazione religiosa, di una esperienza di Dio autentica o di alcuni valori umani fondamentali, quali il diritto alla vita di chi è nato, alla fedeltà di chi è tradito, al buon nome di chi è giudicato in modo ingiusto, e, per chi è in crescita, il diritto ad avere una buona educazione e compagnia.

Gesù insegna che egli è presente in tutte le persone che portano dei bisogni, perché i suoi  discepoli si facciano servi dei fratelli che sono nel bisogno. L’attenzione al prossimo è il requisito indispensabile per entrare nel regno. Gesù distingue i buoni e i cattivi in due categorie. Elenca le opere buone dei buoni; non elenca opere cattive dei cattivi ma le loro omissioni, le opere che non hanno fatto. La condanna non verte sul male fatto ma sul bene omesso, sul servizio che abbiamo negato. Il regno di Dio non abita un territorio ma le relazioni di amore. Dove si ama come Dio è regno di Dio. Gesù è il regno di Dio; egli è il pastore indicato da Ezechiele, che cerca la pecora perduta, fascia quella ferita e cura quella malata. Gesù è il re pastore, il diacono che dà la sua vita per la salvezza di molti.

Per questo può giudicare gli uomini sull’amore. Gesù ci chiama ad educarci a vivere oggi la vita gloriosa di domani, la vita dell’amore che si compie nel servizio.

Siamo chiamati a verificare la nostra coerenza. Venire in chiesa a pregare e a fare la comunione non è coerente con il trascurare il bisogno degli altri, anche quello spirituale, e con il rifiutare la propria disponibilità al Signore per fare la pastorale della comunità.

Una parabola racconta che gli invitati alla cena hanno trovato le scuse per non andare. Chi trascura Dio per i propri affari, dopo essere andato a cena, è più incoerente ancora. Oggi è la giornata per il seminario. Basta pregare o fare un’offerta più generosa?

Occorre anche apprezzare le cose a cui i sacerdoti dedicano la loro vita e occuparci con loro delle cose del padre nostro dei cieli. Oggi la comunità ricorda la generosità di Dio e lo ringrazia. Il modo migliore di ringraziare è valorizzare i doni di Dio e farli fruttificare.

Oggi abbiamo messo in evidenza l’immagine di Maria. Solo per onorarla e invocarla?

Certamente anche per questo ma Maria esiste per essere madre spirituale di tutti e si riconosce in particolare in coloro che dedicano se stessi alla causa di Gesù, a cui lei ha dedicato tutta la sua vita.

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Pagina a cura del gruppo internet della Parrocchia dell'Annunciazione di Campolongo in Conegliano (TV)