Omelie del tempo di Avvento  2020 

 

a cura di don Roberto Bischer

 

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29.11.20   I domenica di AVVENTO B 2020

06.12.20   II domenica di AVVENTO B 2020

08.12.20

  IMMACOLATA CONCEZIONE
     
DELLA B.V. MARIA

B 2020
13.12.20   III domenica di AVVENTO B 2020
20.12.20   IV domenica di AVVENTO B 2020

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I domenica di Avvento – Anno B 

(Is 63, 16b-17.19b; 64, 2-7; Sal 79; 1 Cor 1, 3-9; Mc 13, 33-37)

Campolongo, 29 novembre 2020

 

 

Fratelli e sorelle, oggi iniziamo insieme il tempo di Avvento. Abbiamo acceso la prima candela. In presbiterio, presso la barca, è stata posta anche una lanterna: un ulteriore segno che può aiutarci a percorrere questo nuovo tratto di strada nella fede, certi che il Signore Gesù cammina con noi. Domandiamo fin d’ora al Signore di vivere questo Avvento come un tempo di grazia, occasione propizia per ciascuno di noi, per le nostre famiglie e comunità cristiane. Invochiamo in modo particolare i doni della luce e della pace, caratteristici dell’Avvento e del Natale.

 

Il tempo di Avvento che oggi iniziamo si caratterizza inoltre per alcuni cambiamenti liturgici determinati dalla terza edizione del Messale Romano che, con questa domenica, iniziamo ad introdurre. Come sappiamo, è la preghiera del Signore – il Padre Nostro – a presentare alcune variazioni particolarmente significative. Perché questi cambiamenti? Erano/sono necessari?  La liturgia della Parola di questa domenica potrebbe aiutarci a soffermare la nostra attenzione su questo tema. Prendiamo in considerazione la prima espressione della prima lettura (Is 63,16b17.19b; 64,2-7). Il profeta Isaia scrive parole molto belle: “Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (Is 63,16b). Il tema della paternità ritorna anche alla fine della stessa prima lettura: “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).

Come può Isaia scrivere espressioni come queste? Probabilmente perché egli vive un rapporto particolarmente profondo con Dio; egli ha fatto esperienza di Dio-Padre e ne ha parlato in quei termini. Anche altri autori sacri hanno scritto della paternità divina; evidentemente è Gesù Cristo che ha fatto conoscere con particolare intensità il volto paterno di Dio (cfr. Gv 14,6-11).

Il popolo di Israele ha assunto le espressioni di Isaia e, in modo più ampio, i suoi testi all’interno degli scritti ispirati ossia di quelli nei quali si è riconosciuta un’origine divina. Isaia ha ascoltato una parola, ha fatto esperienza e l’ha trasmessa. Così il popolo di Israele: ha ascoltato, ha fatto esperienza, l’ha trasmesso. Anche la Chiesa ha fatto e fa tuttora la medesima esperienza: riceve una testimonianza, ne fa esperienza diretta, “mette-insieme” gli aspetti fondamentali della fede e li trasmette nel tempo. Ricordiamo quanto definito dal Concilio Vaticano II a questo riguardo, ossia delle due fonti della Rivelazione di Dio: la Sacra Scrittura e la Tradizione della Chiesa (cfr. Dei Verbum, nn.7-10). Non possiamo considerarle separatamente o solo una delle due (cfr. i protestanti). Noi cattolici teniamo insieme la Sacra Scrittura e la Tradizione della Chiesa che, alla luce del Magistero, ci aiutano a custodire e a trasmettere il buon deposito della fede. 

Consideriamo a questo riguardo le altre letture proclamate in questo giorno, in modo particolare il vangelo (Mc 13, 33-37) e la seconda lettura (1 Cor 1, 3-9). Il vangelo di Marco ha presentato il tema della vigilanza. La prima candela dell’avvento esprime esattamente questo. Per descrivere l’esigenza alla vigilanza, Gesù usa l’immagine di “un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito” (Mc 13,34). San Paolo scrive con gioia alla comunità di Corinto perché in essa “la testimonianza di Cristo si è stabilita … così saldamente che non manca più alcun carisma” (1Cor 1,6-7). Nella chiesa ci sono tanti carismi. E nella Chiesa il processo di custodia e trasmissione della fede avviene tenendo conto proprio di questo: ciascuno ha il suo compito, secondo lo specifico carisma.

Forti dunque di questo cammino personale e comunitario – che ci comprende, ci precede e che segue – proseguiamo il nostro percorso di Avvento, facendo nostra l’invocazione del salmo: “Fa splendere il Tuo volto, Signore, e noi saremo salvi!”.

 

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II domenica di Avvento – B

(Is 40, 1-5.9-11; Sal 84; 2 Pt 3, 8-14; Mc 1, 1-8)

Campolongo, 6 dicembre 2020

 

Fratelli e sorelle, le letture proclamate in questa seconda domenica di Avvento sono particolarmente ricche. Desidero proporre a voi un possibile percorso che si concentra sulla necessità per l’uomo – di per sé spesso richiamata – di fare memoria. A questo scopo ricordiamo una attenzione da avere: per fare memoria occorre ascoltare/meditare i testi sacri avendo presente il contesto più ampio da cui sono estratti.

 

La prima lettura (Is 40, 1-5.9-11) descrive una particolare fase di passaggio del popolo di Israele. Sappiamo che si sta concludendo l’esilio; Dio invia il profeta (il deutero-Isaia) ad annunciare al popolo l’inizio di un tempo nuovo. Con il capitolo 40 del libro di Isaia ha inizio il “libro della consolazione di Israele” (proseguirà fino al capitolo 55). Il profeta Isaia, nella pagina odierna, usa parole molto belle, piene di affetto e di consolazione. “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11). Il popolo di Israele sarà chiamato a non dimenticare il tempo dell’esilio – con tutto ciò che l’ha provocato – per poterne fare tesoro nel tempo del suo ritorno a casa.  

 

Anche il salmo va considerato alla stessa maniera, nella sua interezza. Oggi la liturgia ne ha proclamato solo l’ultima parte. Il salmo completo è diviso in tre parti. Nella prima il salmista fa memoria del passato, poi prosegue con l’invocazione sul presente ed infine – ecco la parte odierna – preannuncia con gioia ciò che avverrà. “Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo” (Sal 84,11-12). È una prospettiva che può essere rivolta anche a noi oggi. È un richiamo volto a fare in modo che noi non dimentichiamo da dove veniamo – chi è all’origine della nostra esistenza – nonché verso dove stiamo andando. Siamo dunque invitati a ricordare il passato, non stancarci di chiedere che il Signore manifesti la sua grazia nel presente per poi attendere con fiducia ciò che verrà (il ritorno a casa). La liturgia dunque ci fa volgere lo sguardo alla vita eterna. In questi mesi, se ci guardiano attorno, percepiamo paura, timore. La parola di Dio invece ci ricorda che siamo chiamati a cantare ciò che verrà. Come credenti dovremmo essere persone capaci di guardare al futuro, di vedere ciò che viene dopo! Questo sguardo potrebbe aiutarci a far tesoro di ciò che stiamo sperimentando in questi mesi segnati dalla pandemia.

 

San Pietro ci ha ricordato un tratto molto bello di Dio: “Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). Il termine greco utilizzato è metanoia: coincide con quanto dice oggi il Battista nel vangelo. In questa domenica abbiamo ascoltato l’inizio del vangelo di Marco (l’evangelista dell’anno liturgico in corso). È un inizio che presenta fin dalle prime battute l’invito alla conversione. Ricordiamo le prime parole di Gesù all’inizio della sua vita pubblica: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). 

Dio è magnanimo. Egli desidera che ci convertiamo di cuore per poter essere salvati. Per aiutare la nostra conversione facciamo dunque memoria di ciò che Dio ha fatto per noi. Egli non vuole che ci perdiamo e per questo aspetta, con pazienza infinita, che ci convertiamo. Il pentimento e la confessione sacramentale rientrano in questo percorso. “Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (Is 40,3-4). Quelle valli, quei monti descritti da Isaia possono esprimere gli aspetti e le situazioni che chiedono reale conversione. Il Signore ci dona la possibilità di vivere delle esperienze che chiamano a cambiare vita. A questo scopo siamo invitati a “chiamare per nome” ciò che viviamo. Non si tratta di un giudizio sulla persona, bensì di riconoscere con umiltà i propri peccati per sperimentare concretamente la misericordia di Dio ed essere aiutati a cambiare vita. Lo scopo del nostro Signore – lo sappiamo – non è punirci, ma salvarci. Affidiamo dunque a Dio con fiducia la nostra vita perché sia Lui a rinnovarla giorno dopo giorno.

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Immacolata concezione di Maria 

(Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38)

Campolongo, 8 dicembre 2020

 

Fratelli e sorelle, desidero condividere con voi alcuni pensieri sui quali ho sostato in questi giorni in preparazione alla solennità dell’Immacolata. Ho avuto modo di soffermarmi su alcune riflessioni che don Fabio Rosini ha sviluppato su un antico inno mariano: “Tota pulchra”. Mi pare che da questo canto, tramite don Fabio, sia possibile esprimere contenuti molto belli e profondi del mistero che stiamo celebrando.

 

“Tota pulchra es, Maria”. Tutta bella sei Maria. Un’espressione all’apparenza molto semplice. La bellezza di Maria è totale; non ha zone d’ombra. Di per sé, anche il male ha una sua bellezza; non possiamo negarlo; lo riconosciamo dal fatto che purtroppo cadiamo facilmente nel peccato. La bellezza del male è tuttavia parziale. Attrae all’inizio – ripensiamo alla prima lettura odierna in cui viene narrato il peccato di Adamo ed Eva (Gn 3,9-15.20) – ma poi lascia tristezza, solitudine. Maria invece è tutta bella! Lasciamoci attrarre dunque da Lei, fuggendo il male. 

 

“Et macula originalis non est in Te”. Anche noi siamo bellissimi, tuttavia incompleti. C’è sempre qualcosa che ci disturba. A differenza di Maria noi siamo feriti dal peccato. Di cosa si tratta? Il termine greco che esprime il “peccato” indica la situazione di chi fallisce il bersaglio. Avviene come alle automobili che hanno una convergenza (delle ruote) non perfetta: quando si staccano le mani dal volante la macchina tende a sbandare col rischio di finire fuori strada o di invadere la corsia opposta. Con Maria non è così! Con lei siamo chiamati a “centrare il bersaglio”: accogliere il piano di Dio nella nostra vita; fidarci di Dio e guardare a lui. Maria ha ricevuto una grazia speciale – essere immacolata fin dall’inizio della propria esistenza – a motivo della missione che Dio ha desiderato rivolgerle: accogliere Gesù nella sua carne. La Chiesa non è moralista; Dio ha dato a Maria una grazia in vista di una missione specifica; la sua accoglienza non è stata “solo” il frutto delle sue capacità, ma anche di una grazia specifica che ha preparato la sua missione; a questa missione poi lei ha acconsentito. Abbiamo sentito il vangelo dell’annunciazione (Lc 1,2638) in cui, alla fine, Maria dice: “avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Ciascuno di noi hai una missione e una grazia corrispondente per realizzarla, accogliendola con la propria libertà.

 

“Tu gloria Ierusalem”. Trattasi di un’espressione della Sacra Scrittura. Sono parole che vengono rivolte a Giuditta, vittoriosa contro il nemico Oloferne. Giuditta è una donna vedova, saggia, sapiente e bella. Ella trova il modo per sconfiggere il nemico. Ella dunque è la gloria di Gerusalemme perché è colei che dona alla città la gloria. Giuditta libera Gerusalemme e, in tal modo, anche tutto Israele. Giuditta rende libera la città santa. Queste medesime parole sono ora rivolte a Maria: lei è la gloria del genere umano. Ella ricorda “il peso” (la gloria) di ciascuno di noi: il nostro valore è dato dall’essere figli di Dio. In Maria il genere umano è glorificato. Maria ha mostrato che la nostra carne può dire “sì” a Dio. “Caro capax salutis”, scrive S.Ireneo di Lione: l’uomo è capace della salvezza (cfr. Ef 1,3-6.11-12). Anche in me può prendere carne il Figlio di Dio. La Chiesa è la carne di Cristo. O Maria, fa’ che io oggi possa diventare carne di Gesù.

 

“Tu laetitia Israel”. Il termine letizia viene affiancato ad una parola “particolare”. È un’associazione di significati da comprendere adeguatamente. “Laetitia” può essere collegato a “letame”. Il letame rende fecondo il terreno. Maria è colei che ha reso fecondo Israele. Dio chiede anche a noi di essere fecondi. Per fare questo abbiamo bisogno di lasciarci fecondare da Dio per portare frutto secondo la misura di Cristo.

 

“Tu honorificentia populi nostri”. L’espressione latina significa: “Tu onore del nostro popolo”. Tu, Maria, hai ricordato ad ogni uomo la possibilità di essere santo. Maria sottolinea l’onore di ogni creatura. A volte perdiamo la bellezza e la nobiltà perché ci trattiamo come fossimo “cose secondarie”. Capita infatti di svendere la propria libertà, il proprio cuore … per avere chissà che cosa? Invece siamo figli di Dio. Ecco perché a volte è bene dire: “non ti far trattare così!”. Per te Cristo ha dato il suo sangue! Recupera la tua dignità! Rialza il capo. 

 

“Tu advocata peccatorum”. Maria è “avvocata dei peccatori”. Mi domando: quand’è che Maria opera in questo senso? Nel vangelo di Giovanni, Maria agisce così in due occasioni: a Cana di Galilea (Gv 2,1-12) e poi ai piedi della croce (Gv 19,25-27). Nel primo episodio ella si occupa della festa degli sposi; sotto la croce riceve da suo Figlio il compito di essere madre di tutti noi. 

Impariamo da Maria, da ciò che ella dice alle nozze di Cana: “non hanno vino” (Gv 2,3); Maria dice la verità: c’è un problema e lei lo segnala con chiarezza. Poi però non si ferma qui; subito dopo offre la soluzione sapiente: “qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5). Ecco Maria che conduce a Gesù.

 

“O Maria, O Maria”. Il nome di Maria viene ripetuto due volte. Il nome dice l’identità. È sempre importante saper dare nome alle cose; esprime la “dimensione logica” (da custodire). 

Il nome di Maria contiene alcune “radici” significative. Richiama innanzitutto il nome della sorella di Mosè; ci riferiamo dunque all’acqua – al mare (“iam”) – da cui Mosè viene salvato. Poi richiama la stella (“mar”). Maria è dunque la Maris-Stella, la Stella del Mare. Quando ci si trova in mezzo al mare c’è bisogno di un punto di riferimento (la stella del mare). Infine, Maria è un nome che richiama l’amarezza; sebbene piena di gioia (“l’anima mia magnifica il Signore …”; Lc 1,46) c’è un problema di amarezza anche in Maria.

 

“Virgo prudentissima. Mater clementissima”.

        Virgo prudentissima: è un titolo che richiama la nota parabola giovannea delle vergini che attendono lo sposo. Maria è vergine ma non per questo inesperta, superficiale, banale; viceversa è sapiente: conosce il fine delle cose, sa mirare allo scopo finale, senza disperdersi. 

        Mater clementissima: Maria è madre ed è cle-mens: inclina il capo, ha la mente che si flette, è condiscendente cioè comprende chi ha davanti; in quanto madre, ella comprende. È capace di adeguarsi a chi ha di fronte. Madre sa esser clemente; sa come prenderti e portarti a Gesù.

 

“Ora pro nobis. Intercede pro nobis. Ad Dominum Iesum Christum”. È la richiesta di ogni “Ave Maria”: Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori. Abbiamo bisogno di qualcuno – di Maria – che interceda per noi. Da soli non ci salviamo! Siamo “sulla stessa barca”.  Ricordiamo un aspetto presente già nel “Confiteor”: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli e sorelle, che ho molto peccato … e supplico la Beata Vergine Maria, gli angeli e i santi, e voi fratelli e sorelle, di pregare per me il Signore Dio nostro”. È un testo che esprime la necessità della preghiera reciproca per la nostra salvezza: supplico … voi, fratelli e sorelle, di pregare per me il Signore! 

 

Dal “Tota pulchra” impariamo dunque molto profondamente e con grande amore a rivolgerci alla Vergine Santissima per seguire il Signore nostro Gesù Cristo

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IV domenica di Avvento – B 

(2 Sam 7, 1-5.8b-12.14a.16; Salmo 88; Rm 16, 25-27; Lc 1, 26-38)

Campolongo, 20 dicembre 2020

 

Fratelli e sorelle, siamo giunti alla quarta domenica di avvento; il Natale è oramai vicino. Sostiamo in preghiera in questi giorni con fiduciosa attesa e rinnovato impegno affinché il Signore ci doni la grazia di celebrare il Natale nella fede che tutto rinnova, quella fede che porta luce e speranza nell’oscurità della vita e del mondo.

 

Davanti a noi, in questo giorno, vengono affiancati due grandi personaggi delle Sacre Scritture, della storia della salvezza: il re Davide e la Vergine Maria. La liturgia li affianca in due momenti precisi della loro vita perché, distinguendone le rispettive “sfumature”, possiamo cogliere quella parola (quel “colore”) che Dio desidera donarci in questo momento.

Davide e Maria sono stati scelti e chiamati da Dio per compiere una missione specifica. Su di loro Dio ha posato il suo Spirito perché essi potessero accogliere e vivere un progetto particolare, giorno dopo giorno. Davide e Maria accolgono la chiamata di Dio e, per questo, affrontano molte fatiche, molti nemici, molte difficoltà. Il loro principale “campo di battaglia” non sembra essere l’orizzonte di fondo prospettato dal Signore, ma le piccole scelte e le singole situazioni quotidiane rispetto alle quali non è facile decidere come comportarsi nella fede. Su questo “terreno feriale” ho trovato particolarmente illuminanti alcune parole di un biblista milanese, un frate cappuccino, Roberto Pasolini; le sue riflessioni mi hanno aiutato ad approfondire questo aspetto.

Faccio riferimento innanzitutto ad una sua citazione tratta da “Il giovane Holden” (J.D. Salinger). Ci si domanda quale sia la differenza tra un giovane e un adulto. Questa la risposta: il giovane è disposto a morire per un ideale, l’uomo adulto è disposto a vivere umilmente per esso. L’adulto vive giorno dopo giorno per l’ideale che ha scelto, probabilmente con fatica ma con determinazione. È una prospettiva che porta a dire che il mondo lo si cambia riparandolo non facendolo da capo. E Maria Santissima ha dimostrato questa fedeltà al quotidiano; la fedeltà di invocare ogni giorno l’aiuto di Dio e di riscoprirlo presente. È l’obbedienza della fede a cui siamo chiamati, come riporta anche la conclusione della lettera di san Paolo ai Romani (cfr. Rm 16,27) che oggi abbiamo ascoltato. 

Pare di poter dire che Davide sia caduto proprio sul “terreno feriale” della vita. Dice il secondo libro di Samuele, nel testo ascoltato nella prima lettura oggi (2 Sam 7, 1-5.8b-12.14a.16), che “il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno” (2Sam 7,1). È una frase che ha attirato la mia attenzione. Da questa espressione possiamo comprendere che, grazie a Dio, erano stati sconfitti tutti i nemici di Davide all’intorno; restavano ancora però quelli all’interno. Occorre combattere sia all’intorno che all’interno; la vigilanza va mantenuta su entrambi i fronti; l’ascolto e l’obbedienza della fede vanno coltivati con pazienza, fiducia e determinazione.

A questo riguardo riporto, in conclusione, alcune parole di fra Roberto Pasolini. Penso possano aiutarci a comprendere ulteriormente quanto stiamo cercando di dire.

 

C’è la difficoltà ad entrare in sinergia con la volontà dell’Altissimo. È una grande tentazione, anzi, persino una pericolosa mistificazione … rifiutare di confrontarsi con la Sua sensibilità. Tocca a noi esprimere richieste e desideri. Purtroppo le sofferenze della vita vorrebbero insegnarci che … non vale la pena rivolgerci a Dio. Niente di questo appare nel cuore della giovane vergine di Nazareth che non sembra aver alcun timore nell’accogliere la parola di Dio con partecipazione e creatività. 

 

Intuendo che Dio aveva bisogno di Lei, del suo corpo, dei suoi giovani affetti, della sua umanità al femminile, Maria non tace, ma comunica con piena libertà il suo bisogno di essere illuminata per poter aderire meglio al disegno di salvezza. La Vergine comprende che l’avventura della vita conosce accelerazioni improvvise ed invita a compiere passi enormi impossibili; per questo sente il bisogno di assicurarsi soltanto di una cosa: che questo non sia un sacrificio, ma un olocausto d’amore. 

 

La medesima parola udita da Maria, per altre vie ma con la stessa intensità, bussa anche alla nostra porta, proprio in questi giorni. A noi Dio rivolge l‘invito a essere un luogo santo dove la sua parola di salvezza desidera ancora diventare storia sacra e nuova umanità. Proprio noi che ancora una volta ci siamo incamminati (a celebrare il mistero dell’Incarnazione) siamo chiamati a convertire il cuore all’amore più grande, ad ascoltare il canto dell’Annunciazione che comincia sempre allo stesso modo: con un invito a riconoscere quanta benevolenza ha finora accompagnato la storia della nostra vita.

 

Maria si fa trovare; dice: “eccomi”, sono qui. Lo fa credendo che mentre il cuore è ancora piena di paura la sua vita è piuttosto colma di benedizione; che i motivi per sorridere sono infinitamente maggiori di qualsiasi ragione per piangere o declinare l’invito del cielo. Non ha paura di credere perché non ha esitato a chiedere. Anche noi sapremo cambiare qualcosa della nostra vita e del mondo solo se saremo disposti a dialogare con Dio, là dove siamo ancora in attesa di comprendere in che modo la nostra esistenza può diventare un dono d’amore.

 

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Santa Famiglia 2020 – B

 (Gn 15, 1-6; 21, 1-3; Salmo 104; Eb 11, 8.11-12.17-19; Lc 2,22-40)

Campolongo, 26-27 dicembre 

 

Fratelli e sorelle, le letture che quest’anno sono state proclamate nella festa della Santa Famiglia mi hanno fatto pensare ad un tema che in questi primi mesi del cammino pastorale comunitario stiamo sviluppando nell’ambito del percorso di catechesi con le famiglie, specificamente con gli adulti.

 

La liturgia odierna si concentra in modo particolare sulle figure di Abramo e Sara: sono loro i protagonisti principali della prima e della seconda lettura ed è a loro che Dio indirizza la promessa di una discendenza. 

Nella pagina di Genesi che abbiamo ascoltato (Gn 15, 1-6; 21, 1-3), Abramo si rivolge al Signore con queste parole: “Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli … A me non hai dato discendenza” (Gen 15,2-3). Nella lettera agli Ebrei (Eb 11, 8.11-12.17-19) viene descritta la fede di Abramo e Sara in questi termini: “per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì … e partì senza sapere dove andava; per fede, anche Sara … ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso” (Eb 11,8.11). In questa stessa fede il salmo di oggi (Sal 104) ci ha esortato a rimanere, ripetendo più volte nel canto il ritornello: “Il Signore è fedele al suo patto”.

Il tema della discendenza presentato ad Abramo e Sara riguarda per certi aspetti anche il vangelo odierno (Lc 2,22-40). Il brano di San Luca descrive la presentazione di un figlio, Gesù, da parte dei genitori al Tempio di Gerusalemme: un fatto particolarmente denso di significati che viene arricchito ulteriormente, come sappiamo, dalla presenza di Simeone e Anna. La presentazione del bambino Gesù esprime l’atto di obbedienza e di fede che Maria e Giuseppe compiono verso Dio secondo i precetti religiosi del tempo. Questo gesto può ricordare a noi un aspetto molto delicato, importante, da comprendere in profondità: il fatto che il figlio (ogni figlio), frutto dell’amore dei coniugi, appartiene a Dio, è a Lui consacrato e da Lui riscattato. 

 

Ripensando da un lato alla figura di Abramo e Sara in rapporto alla loro discendenza e, dall’altro, a Maria e Giuseppe nel momento della presentazione di Gesù al Tempio, sono emerse alcune riflessioni che mi sembra possano aiutarci ad approfondire un tema che in questi mesi è emerso, come anticipato, nell’ambito degli incontri con i genitori dei ragazzi del catechismo. 

Con i genitori stiamo sviluppando le caratteristiche della preghiera cristiana. Tra i vari aspetti ci siamo soffermati sulla duplice realtà che ciascuno di noi vive, seppur in modo diverso, quando si pone in dialogo con Dio. La preghiera è precisamente questo: dialogo con Dio. In questa relazione con Dio ciascuno di noi si può percepire secondo una duplice prospettiva: come figlio e/o come genitore (padre/madre). Evidentemente questa “condizione generativa” va considerata non solo in senso biologico ma anche spirituale. 

Le figure di Abramo e Sara, unite a quelle di Giuseppe e Maria, nelle pagine oggi proclamate, possono aiutarci ad approfondire questo tema, trovando ulteriore luce[1]. 

 

Soffermiamoci sull’esperienza di Abramo, sulla sua relazione con Dio, così come va maturando nel corso del tempo. Potremmo dire che Abramo viene aiutato da Dio a vivere un particolare cammino esistenziale (spirituale) di purificazione. Dio lo porta a considerare (purificare) la sua duplice dimensione di figlio e di padre all’interno della più ampia e profonda relazione con Dio stesso. 

 

La duplice relazione con il padre (Terach) e con il figlio della promessa (Isacco) non va considerata prima di tutto in sé stessa, ma in funzione del cammino spirituale di Abramo, della sua salvezza, messa a repentaglio da alcune tentazioni (rischi) da cui il Signore vuole preservarlo. Filo conduttore di questo cammino potrebbe essere riconosciuto del duplice comando – “vattene!” – che, nelle Sacre Scritture, Dio rivolge ad Abramo: “vattene dalla tua terra … dalla casa di tuo padre” (Gen 12,1-2); “vattene verso la terra di Moria… ” (Gen 22,2). Come intendere questi comandi, cosa possono significare per noi, per la nostra relazione con Dio?

 

Dio innanzitutto comanda ad Abramo di lasciare la casa di suo padre; perché? Non si tratta evidentemente di considerare la casa paterna – gli affetti, i legami di sangue – in senso negativo. Sappiamo che una delle “Dieci Parole” che Dio comunica a Mosè dice “onora il padre e la madre” (cfr. Es 20,12). Dunque per comprendere in profondità tale comando dobbiamo ricordare la particolare vicenda di Abramo. “La casa del padre” sta ad indicare un legame “viziato” che può portare Abramo a chiudersi in sé stesso, a ripiegare dentro le altrui bramosie. Pertanto Abramo, per salvare la propria vita, deve lasciare “la casa paterna”, deve uscire da un contesto pericoloso. Il comando non intende far soffrire Abramo, bensì salvarlo; ancora una volta Dio si dimostra estremamente paterno (Lui sì). 

 

In un secondo momento, Dio comanda ad Abramo di andare sul monte per offrire un sacrificio (il figlio, la sua libertà?). Dio vede che Abramo rischia di ricadere in quel pericolo da cui era a suo tempo scampato abbandonando – come ordinato da Dio – la casa paterna. In altre parole Abramo rischia di comportarsi come suo padre Terach. Abramo si trova nella tentazione di vedere e intessere la relazione con il figlio Isacco – il figlio della promessa – in modo possessivo, egoistico, mortifero. Abramo deve “lasciare andare” suo figlio, sciogliere i lacci con i quali tiene legato a sé il figlio. Solo in questo modo potrà essere realmente padre, generativo, quindi capostipite di una generazione immensa come le stelle del cielo (generazione dentro la quale ci siamo anche noi …).

 

Quale messaggio può venire a noi da tutto questo? Anch’io, in quanto figlio/padre, posso essere chiamato da Dio a lasciare tutto ciò che impedisce di essere generativo: verso la “casa paterna”, verso “i miei figli” (le giovani generazioni). Questo perché genitori e figli (giovani generazioni) oltre che un dono sono, ben più profondamente, un segno che Dio mi offre per crescere nella relazione con Lui e, fondamentalmente, poter essere salvato ossia entrare in possesso della terra promessa, la vita eterna. Come padre/madre o educatore devo saper far di tutto perché i figli (le giovani generazioni) che mi vengono affidati (per un certo tempo), possano essere in grado di “stare in piedi” con le loro gambe, ossia instaurare e far maturare in loro una profonda relazione con Dio in modo che anch’essi possano essere a loro volta realmente generativi. 

 

Ecco dunque il messaggio per ciascuno di noi: coltivare (in sé e negli altri) relazioni generative, capaci di generare vita.  Maria e Giuseppe dimostrano questa capacità, nel brano ascoltato oggi e in tutte le altre situazioni narrate nelle Sacre Scritture. Alla stessa maniera anche Simeone ed Anna: sono capaci di attendere la venuta del Redentore, servendo Dio notte e giorno nel Tempio così che, una volta incontrato, possono trattenerlo con gioia, anche solo per un istante, tra le braccia.


[1] La riflessione è stata guidata dal seguente saggio: André Wénin, Le scelte di Abramo. Lasciare il padre, lasciare andare il figlio, EDB, Bologna 2016.

 

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Pagina a cura del gruppo internet della Parrocchia dell'Annunciazione di Campolongo di Conegliano (TV)